Addio a Nino Benvenuti, il pugile che sorrideva
Campione del mondo dei pesi medi. Nato in Istria e poi esule in Italia non ha mai dimenticato le ferite del suo passato. Nel 1960 vinse i Giochi: “Questa vittoria dà un senso a quello che è successo”

Emile Griffith e Nino Benvenuti si scontrarono tre volte per il titolo dei pesi medi
Roma, 20 maggio 2025 – Nino Benvenuti, spentosi oggi a 87 anni, non è stato soltanto il più grande pugile italiano della Storia. È stato, anche e soprattutto, un simbolo del Novecento tricolore. Credo ne fosse consapevole: ho avuto modo di conoscerlo bene nei lunghi anni del dopo carriera (smise di fare a cazzotti nel remoto 1971) e sempre mi ha colpito la sua appartenenza nobile ad una certa idea del Bel Paese. Non da tutti ricambiata. Intendiamoci subito e senza equivoci: Nino, il mio amico Nino, è stato un uomo intriso di contraddizioni. Nell’epoca d’oro dei trionfi pugilistici amava recitare il ruolo del Piacione, il personaggio che strizza l’occhio alla platea inseguendo l’applauso facile. Ma al tempo stesso era intimamente turbato da un tormento non dichiarabile, figlio di una sofferenza impossibile da esternare in quella Italia là. E mi spiegherò poi, parlando alla fine delle origini istriane, delle radici strappate, di una ferita mai davvero rimarginata, nonostante la gloria, i soldi, la fama.
I record
Con i guantoni, Benvenuti è stato un Fenomeno con la maiuscola. Oro olimpico a Roma nel 1960, assieme al leggendario Cassius Clay, il futuro Muhammad Ali. Poi re mondiale dei superwelter, passando attraverso due sfide infuocate contro il connazionale Sandro Mazzinghi, un ruvido toscano che anche idealmente rappresentava il suo alter ego. Fecero a botte sul ring odiandosi ferocemente, spaccando in due l’opinione pubblica, in stile Coppi e Bartali. E per decenni non si rivolsero la parola, si riconciliarono solo quando il sole stava tramontando sulle loro esistenze.
Di notte
Dopo, dico dopo Mazzinghi, Benvenuti, ben gestito dal manager bolognese Bruno Amaduzzi, si trasformò in Mito assoluto. Nel 1967 varcò l’oceano e strappò il titolo dei pesi medi all’americano Griffith. Non c’era la tv in diretta, ma diciotto milioni di italiani accesero la radio nel cuore della notte per ascoltare il racconto di Paolo Valenti, il futuro papà del Novantesimo Minuto televisivo. Diciotto milioni! Perché questo era diventato Nino: il simbolo della rinascita patriottica, l’emblema agonistico del boom economico, l’Eroe unico di una Nazione che si era miracolosamente rimessa in piedi. Il resto venne di conseguenza. La fama spropositata. Il divismo. Il cinema con un film western insieme a Giuliano Gemma. Un matrimonio con Giuliana e tanti figli e poi un amore scandaloso per l’emiliana Nadia, donna meravigliosa che fu vittima di un’era bigotta. Perché quando la notizia della relazione trapelò persino Paolo VI, il Papa, cancellò un incontro con il pugile e Benvenuti (“Per viltà”, mi confessò decenni dopo) negò quella passione, che pure aveva generato un’altra figlia. Nota a margine: Nino e Nadia molto tempo dopo si ritrovarono e si sposarono e io conservo la memoria meravigliosa di una cena in loro compagnia, anziani e felici, alla ricerca del tempo perduto.
La fine
Sul ring, la carriera gloriosa di Nino si frantumò definitivamente nel 1971 contro il muro di pugni di un argentino terribile, Carlos Monzon. Nino poi ne diventò amico, come lo fu del Griffith suo antagonista nella trilogia americana (due vittorie e una sconfitta): Benvenuti non viveva la boxe come violenza, bensì come esercizio di stile. Si sentiva un artista nobile, sul quadrato. E lo era.
Il rimpianto
Infine, ho un debito con chi mi ha letto fin qui. Capiremo l’unicità di Nino Benvenuti solo ritrovando la confessione che mi rese parlando una sera delle sue origini. “In verità l’Istria, più dell’Italia, è la terra mia. Sono sempre rimasto un esule: in Istria ci stanno il mio cuore la rabbia che ho provato ai tempi dell’esodo per essere stato derubato della mia identità. Fummo cacciati dai comunisti di Tito e quando arrivammo in Italia fummo etichettati come fascisti. Invece eravamo semplicemente italiani e la verità è che da allora quelli come me non hanno più avuto una patria”. Riposa in pace, Nino.
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