Il Kaiser che cambiò tutto. Classe, visione, trionfi. L’esempio di Beckenbauer
Si è spento a 78 anni un mito del pallone, campione del mondo in campo e da ct. Il duello epocale con Cruijff, le invenzioni da libero: un leader che ha fatto la storia.
Me lo trovai di fronte, insieme a tanti colleghi, in una notte di luglio del 1990. Nella pancia dello stadio Olimpico, a Roma. Da allenatore aveva appena alzato la Coppa del Mondo, battendo in finale con la sua Germania ancora Ovest (la riunificazione tedesca sarebbe ufficialmente arrivata pochi mesi dopo, a ottobre) l’Argentina di Maradona. Disse tutto d’un fiato: "Da giocatore ho fatto meno fatica!".
Franz Beckenbauer, spentosi ieri a 78 anni, è stato uno degli eroi calcistici del Novecento. Accostabile a pochissimi: al Dieguito già citato, ovviamente a Pelé, naturalmente alla sua nemesi anche socio culturale, cioè l’olandese Johan Crujiff, ammesso si scriva così.
Franz e Johan, forse inconsapevolmente, hanno incarnato un dualismo che andava oltre il rettangolo verde. Per chi c’era, sono stati gli emblemi di una collisione che ha riempito articoli di giornale, libri, film, lezioni di filosofia. Il tedesco e il tulipano erano pragmatismo e filosofia, realismo e sogno, praticità ed utopia: tutto confuso è racchiuso in una immagine sola, in uno specchio che rimandava all’infinito emozioni, contraddizioni, sovversioni ed intuizioni.
Quella partita, Germania-Olanda del 1974, finale iridata, fu in contemporanea tempio e scempio. Tempio di una religione che tutto basava sul risultato: infatti i tedeschi, dal portiere Maier al bomber Müller, fecero prevalere la loro cruda adesione al valore della verità. Scempio di una illusione: gli arancioni di Crujiff pretendevano di portare la fantasia al potere. E infatti uscirono sconfitti.
Eppure, sarebbe sbagliato raccontare l’elegantissimo Beckenbauer come testimonial dell’eterno ritorno del sempre uguale. Così lo interpretò Gianni Brera, il maestro di tutti noi scribacchìni: ma era, lo dico sommessamente, una sciocchezza figlia del pregiudizio.
In breve. Franz il Kaiser, idolo del Bayern di cui fu il pioniere, ha invece contribuito a rendere moderno il football. Nato centrocampista, con due piedi da artista, fu lui, Beckenbauer, a stravolgere per sempre l’identità di un ruolo che oggi non c’è più. “Libero” veniva detto il calciatore che si sistemava, ultimo uomo, fra la difesa e il portiere. Libero solo di distruggere l’offensiva avversaria, non di creare.
Beckenbauer no. Beckenbauer scelse quella posizione e ne fece il piedistallo del direttore d’orchestra. Non era un banale baluardo. Era un leader che da dietro, palla al piede, costruiva, progettava, inventava. Per stare alla sola Italia, Gaetano Scirea e Franco Baresi hanno avuto in lui un maestro, una fonte di ispirazione, un modello da inseguire.
Con le scarpe bullonate ai piedi, Beckenbauer ha portato il Bayern Monaco e la Germania a vincere tutto. Bundesliga, tre Coppe dei Campioni consecutive, la Coppa del Mondo e il titolo europeo con la Nazionale. Che poi, da ct, guidò al citato trionfo del 1990. Piccolo inciso: da giocatori e da allenatori, il mondiale lo hanno vinto appena in tre. Zagallo il brasiliano, Deschamps il francese e appunto Franz, il bavarese.
Ultima cosa, tutta azzurra, tutta nostra. Italia-Germania 4-3, 17 giugno 1970, la partita del secolo. Durante il secondo tempo Beckenbauer si fracassò una spalla, i tedeschi avevano già esaurito le sostituzioni, lui rimase in campo con un braccio al collo. E alla fine andò dal suo amico Gianni Rivera, autore della rete decisiva, per dirgli che, ohibò, dovendo perdere almeno aveva un senso essere battuti da un gol del Golden Boy del Milan…
In fondo, è vero. Tra artisti, ci si riconosce sempre.
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