Il libro di Luciano Spalletti: “A Empoli accorciai il campo. E iniziai a fare l’allenatore”
Dalla serie C alla Nazionale: un’anticipazione dell’autobiografia del ct. “Il presidente Corsi mi diede la chance della vita. A quel punto alzai l’asticella”

Spalletti in azione con l’Empoli di cui era il capitano: ha smesso di giocare a 34 anni
Empoli, 6 maggio 2025 – “Il paradiso esiste... Ma quanta fatica” è il titolo della biografia che sarà pubblicata oggi, con cui Luciano Spalletti, commissario tecnico della nazionale italiana di calcio, si racconta come non aveva mai fatto finora. Sono pagine di inquietudini e leggerezze in cui, mentre disvela le sue radici e i valori di un mondo che non c’è più, per la prima volta dice la sua sulle controverse vicende alla Roma e all’Inter, sul trionfo-Scudetto con il Napoli nel 2023 e sull’obiettivo di tornare a giocare i Mondiali nel 2026. In questo libro (edito da Rizzoli) scritto con Giancarlo Dotto, giornalista e grande decifratore di anime complesse, si racconta come non aveva mai fatto finora. E, mentre ci svela le sue radici, l’amore per la terra, la fedeltà ai valori di un mondo che non c’è più, “fatto di tanto lavoro, di dignità, fatica e cose semplici”, ripercorre il suo cammino. Pubblichiamo qui un estratto del libro.
Smetto di giocare a trentaquattro anni, al braccio la fascia di capitano dell’Empoli. Era la stagione 1993-94. Subii un serio infortunio muscolare che mi costrinse a finire il campionato in anticipo, verso la metà. I risultati non arrivavano, la squadra rischiava la retrocessione in C2. Decisero di cambiare la guida tecnica. Il presidente Fabrizio Corsi e il direttore sportivo Silvano Bini mi chiesero a bruciapelo se fossi disponibile a fare l’allenatore della prima squadra, nonostante la totale inesperienza e la mancanza del patentino. Ero stato capitano di quel gruppo fino a pochi mesi prima, avevo un grande rapporto con la vecchia guardia. Si era tutti amici e si usciva a cena con le famiglie. Si faceva baldoria, soprattutto si rideva tanto. Accettai l’incarico con la forza dell’incoscienza. Non sapevo da dove cominciare, ma mi era chiaro il desiderio di un lieto fine. E lieto fine fu. Ci salvammo ai playout nel doppio confronto contro l’Alessandria, uscendo indenni nel ritorno da uno stracolmo Moccagatta, lo stadio del debutto di Gianni Rivera, dopo una vittoria risicata a casa nostra.
A fine stagione fui restituito alle giovanili, com’era giusto, per riprendere il mio percorso in modo corretto, senza forzature. Un’esperienza molto formativa, che non scorderò mai. Il rapporto con quei ragazzi, adolescenti di quindici, sedici anni, fu particolarmente intenso, andò al di là delle semplici dinamiche di campo. I più sensibili misero a disposizione del gruppo le problematiche del loro vissuto, per me un elemento aggiunto di ricchezza umana e di crescita professionale. Nella stagione 1995-96 tornai alla guida della prima squadra, che nel frattempo aveva vissuto un altro anno tribolato. Fabrizio Corsi mi diede la chance che cambiò la mia vita. Il presidente era all’epoca un giovane imprenditore, ma aveva già una visione lungimirante, le idee giuste e il coraggio necessario per metterle in pratica. Nel mio ritorno alla prima squadra ritrovai lo zoccolo duro del gruppo di cui avevo fatto parte, gente tosta, uomini forti, iene con una solida attitudine a tenere il coltello tra i denti. Daniele Baldini – che poi sarebbe diventato un mio stretto collaboratore –, Alessandro Pane, Giovanni Martusciello, Stefano Bianconi, Alessandro Birindelli – in seguito passato alla Juventus –, Carmine Esposito e gli altri. Il mio Empoli macinava, il gruppo era affiatato e i risultati arrivarono: la Coppa Italia di Serie C e la promozione in B ai playoff.
La stagione dopo, al primo anno tra i cadetti, giocavamo come dei veterani della categoria. Venne persino Zeman a passare una settimana con noi, voleva assistere ai nostri allenamenti. Il boemo si era già fatto conoscere in tutta Italia grazie al suo Foggia e alla sua Lazio e di lì a breve si sarebbe seduto sulla panchina della Roma. Quel giorno, contro la Lucchese, chiese di assistere persino alla riunione prepartita. Centrammo la Serie A al primo tentativo. Una sequenza micidiale, un uno-due da favola, dalla C1 alla A. Bastarono due stagioni da allenatore per arrivare dove non ero mai stato da calciatore. Nella prima stagione di A, la 1997-98, ci salvammo con una giornata di anticipo.
Fu tra l’altro a Empoli che i miei due centrali difensivi, Bianconi e Baldini, fisicamente possenti, due ciclopi, che però proprio per questo andavano in difficoltà nelle chiusure in fascia contro le punte rapide, mi suggerirono una marachella niente male per sopperire a questa lacuna... Una sera io e Baldini invitammo a cena il capo dei giardinieri e, vincolandolo al segreto assoluto, lo incaricammo di stringere nottetempo il campo di casa di due metri a ogni lato per accorciare e facilitare la corsa dei due difensori. Naturalmente la cosa non si doveva sapere. Sta di fatto che da quel momento la nostra difesa, nelle partite in casa, diventò ermetica.
Fu anche l’anno in cui scelsi il mio uomo di fiducia, quello con cui avrei condiviso e continuo a condividere tutto ciò che dura da una vita: “il Generale” Marco Domenichini. Chiamato così perché è lui che impartisce la legge dietro le quinte. Lo fa con infinita dolcezza. Un uomo raro. Bontà, competenza e disponibilità. Auguro a tutti quelli che fanno il mio mestiere di ritrovarsi un Marco Domenichini come secondo. Nell’insieme, quelli trascorsi a Empoli, quattro anni bellissimi. Fu nei quattro anni all’Empoli che il mio desiderio s’impose netto, senza equivoci: volevo fare l’allenatore. Ero stato capace di gestire la determinazione dei calciatori e di essere riconosciuto come mister, grazie e nonostante l’amicizia. Tutta quella gente pronta a buttarsi nel fuoco per la causa fu decisiva nel sopperire alle mie carenze di principiante. Sì, potevo fare quel lavoro. Ero pronto per altre panchine e altre esperienze. Si trattava di alzare l’asticella.
Continua a leggere tutte le notizie di sport su