Hiroshi Komatsuzaki: il match analyst della Reggiana che non si ferma mai
Hiroshi Komatsuzaki, match analyst della Reggiana, racconta il suo impegno incessante nel calcio italiano.

Hiroshi Komatsuzaki, match analyst della Reggiana, racconta il suo impegno incessante nel calcio italiano.
Maledetta apparenza. Lo vedi ai campi, allo stadio, in sede e non ti regala un mezzo sorriso. Sempre impettito, passo e occhi decisi. Se non indossasse la tuta della Reggiana, Hiroshi Komatsuzaki (per tutti ’Hiro’), diresti che è un colonnello dell’esercito giapponese. Poi trascorri un’oretta insieme e ti travolge con risate schiette e contagiose.
Dionigi dice che lei dorme tre ore a notte e lavora sempre.
"Diciamo che è successo. Quando devo fare una cosa la voglio fare bene. Con il massimo dell’impegno: solo così sono in pace con me stesso".
Alla faccia dell’impegno. Negli ultimi due mesi le guardie giurate alzavano la soglia di attenzione ogni volta che passavano dal Villa Granata Center: luci accese alle tre di notte.
"Ah ah ah! C’era molto da lavorare e lì la linea internet va che è un piacere... Dovevo analizzare i nostri errori, sottolineare le cose positive e poi studiare gli avversari. La missione alla Reggiana è stata molto molto intensa. In più il mister è esigente. Lui dice di me, ma Dionigi è un perfezionista, non molla mai, concentratissimo anche sui minimi particolari e ti chiede informazioni anche un secondo prima dell’inizio del match".
Insomma, ha ragione Dionigi: lei lavora sempre.
"Sì, venticinque ore al giorno. Ah ah ah!".
Non faccia lo spiritoso: una conoscenza in comune, senza fare nomi Andrea Montanari (addetto stampa del club), ci ha confessato un aneddoto del post partita a Castellammare di Stabia. Tutti a festeggiare come matti una salvezza miracolosa e lei nella hall dell’albergo a smanettare sul suo computer portatile...
"Sì, è vero. Ma (Hiro si fa serio, ndr) era giusto così: dovevo preparare la partita di Brescia. Alla fine di ogni gara io mi metto subito al lavoro: cinque-sei ore le impiego per studiare la partita, che riguardo minimo due volte. Poi preparo le immagini che servono al mister per analizzare con staff e giocatori errori, ma anche le giocate e gli atteggiamenti positivi. E’ un confronto quotidiano. La tattica è presente in quasi tutte le sedute di allenamento. Non è come quando sono arrivato in Italia che l’allenatore al martedì mostrava ai calciatori tutta la partita e poi basta per tutta la settimana".
Già l’Italia. Come e quando ci è arrivato?
"In Giappone giocavo ed ero bravino. Disputavo il campionato di primo livello, ma non ero professionista perché all’epoca da noi eravamo tutti dilettanti. Ho smesso molto giovane perché mi sono sfasciato tutto: ginocchio, caviglia... Così cominciai a studiare da allenatore e nei primi anni del 2000, poco più che trentenne, decisi di partire per l’Italia".
Chiamato da chi?
"Da nessuno. Negli anni Novanta noi giapponesi guardavamo le partite di Serie A e ci siamo subito innamorati del calcio italiano. E così sono volato a Roma".
Quindi senza neppure un appoggio.
"Sì, non conoscevo nessuno. È stata dura, anche perché a quei tempi, in generale, gli asiatici non erano visti benissimo. E nel mondo del calcio c’era, e c’è ancora, molta diffidenza nei confronti da chi viene da Paesi come il Giappone".
Torniamo a Roma: lavorava e seguiva il football?
"Certo, ero venuto per quello! Ho girato per tre anni nei campi di periferia, seguivo i campionati dilettantistici. C’è da imparare anche da quel mondo: osservavo, prendevo appunti, imparavo. Poi la svolta...".
Come è avvenuta?
"Ho conosciuto il dottor Mario Brozzi, che era medico della Roma (successivamente anche del Milan, ndr). Siamo diventati amici e gli ho chiesto di poter andare a Trigoria a seguire gli allenamenti: dopo il sì ero là tutti i giorni. Ho imparato molto da Fabio Capello. Poi ho iniziato a girare e studiare altre squadre, fino a quando mi sono reso conto che la strada per diventare allenatore professionista in Italia per me era impraticabile. Ma mi piaceva molto la tattica e così ho continuato a studiare, studiare e ancora studiare. Anche perché allora la figura del match analyst praticamente non esisteva".
Fino a quando la chiama Ficcadenti al Cesena nel 2010-2011.
"Bellissima esperienza. Mi sono trovato da un momento all’altro a studiare i filmati di Pirlo, Ibrahimovic, Nesta... Con noi c’erano Parolo e Giaccherini, giocatori forti. Ci salvammo con una giornata di anticipo e lanciammo Nagatomo, che a gennaio si trasferì all’Inter".
Successivamente, nel 2014, Ficcadenti firmò per il Football Club Tokyo. Ci fu il suo zampino?
"No assolutamente. Il mister fece tutto da solo. Io però decisi di restare in Italia. Volevo studiare e crescere ancora".
Restò in Italia anche per i guadagni?
"Magari. In Giappone il mio stipendio sarebbe il triplo di quello che prendo qui. Forse addirittura di più. Ma i soldi vengono dopo, per me è un onore lavorare nel calcio italiano".
"Non mollare mai" è davvero il motto perfetto per lei.
"Noi giapponesi siamo così, anche se le nuove generazioni sono un po’ cambiate: chi è dipendente di un’azienda, ad esempio, lavora come fosse sua. Dalle 8,30 alle 18 resta sul pezzo. E se non ha terminato quello che si era prefissato di fare, resta in ufficio fino a quando non ha finito. E senza farsi pagare gli straordinari".
Diceva delle nuove generazioni.
"Vedo i ragazzi, i giovani che si accontentano di fare il compito che gli è stato assegnato. Stop, basta così. Invece bisognerebbe sempre aver voglia di crescere, imparare cose nuove, perfezionarsi".
Qualcosa mi dice che lei non ha profili social...
Silenzio. Poi un accenno di risata. "È vero. Non ho profili social".
Niente social, ma neppure interviste. Non se ne trovano.
"Non mi piace parlare tanto. Mai fatta un’intervista così lunga. Spesso mi guardo allo specchio e mi dico: ‘Non hai fatto ancora niente. Devi continuare a pedalare’. Però, anche se non sembra, mi piace scherzare"
Anche con i giocatori?
"Fiamozzi un giorno mi ha chiesto: ‘Hiro, ma non sorridi mai?’. In effetti un po’ di soggezione la metto. Però credo che ai calciatori bisogna sempre trasmettere la massima concentrazione".
Sempre lavoro. Avrà ben festeggiato la salvezza della Reggiana...
"Devo dire la verità?".
Ahia...
"Non ho fatto nulla. Dovevo portare a cena il mio amore, ma non l’ho ancora fatto".
Chi è questa santa donna?
"Sono sposato da trent’anni con Asaka, che in giapponese significa mattina profumata. Stiamo benissimo insieme, abitiamo a Parma da qualche anno. Figli? No, se vuoi fare il genitore come si deve devi dedicare loro tanto tempo. Se ne avessimo avuti non avrei potuto intraprendere questa carriera>.
Nel tempo libero cosa fa?
"Guardo partite".
Non ci prenda in giro Hiro...
"E’ la verità (ride, ndr). Ultimamente con mia moglie andiamo a camminare in montagna. Ci piacciono molto le Dolomiti. E quando ho un’oretta di tempo vado a correre. Ma ho smesso durante il lavoro alla Reggiana. La salvezza era troppo importante, non bisognava perdere neanche un minuto...".
Abbiamo aperto con Dionigi. Chiudiamo con lui?
"Per me è un onore lavorare con lui. Ho lavorato con diversi allenatori, ma come il mister non ho mai conosciuto nessuno. Umanamente è splendido: correttissimo e affettuoso".
Sul lavoro?
"Studia tantissimo. Ha tante idee e fantasia. E incredibile come riesce subito a leggere le partite. Peccato che non sia ancora riuscito a dimostrare tutto il suo valore, ma la salvezza con la Reggiana dimostra di che pasta è fatto".
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