Igor Cassina: "Vincere non è tutto. Così vado in carcere a incontrare i detenuti"
Vent’anni fa l’oro olimpico ad Atene per il ginnasta, ora allena i giovani: "L’esperienza nel sociale però è quella che mi ha arricchito di più. Da San Vittore a Venezia ho ascoltato chi spera di avere un’altra chance"
Milano, 25 marzo 2024 – Quando volava volteggiando verso il cielo delle Olimpiadi, Igor Cassina non avrebbe mai pensato che un giorno il suo esempio sportivo si sarebbe trasformato in un esercizio mentale di resistenza per uomini nei guai. Sono passati vent’anni da quell’oro alle Olimpiadi di Atene, e la vita del grande atleta che oggi ne ha 46, di anni, è molto diversa. Allena giovani talenti della ginnastica artistica nella Pro Carate, certo. Ma va anche nelle carceri ad incontrare i detenuti: e quando esce, sono cambiati un po’ tutti, perché lo scambio di vita non è mai a senso unico.
L’ultima volta qualche giorno fa nel carcere di Venezia, dove il direttore Enrico Farina e l’associazione di volontariato ’Il granello di senape’ stanno permettendo ai detenuti di incontrare sportivi famosi per trasmettere regole e valori che torneranno utili fuori.
Cassina, come è stato l’incontro con i detenuti?
"Non è la mia prima esperienza in un carcere, sono stato già anche a San Vittore, a Como perché ho una cugina impegnata nel sociale. In questi anni ho sviluppato l’esperienza che serve per avere il tatto giusto".
Sapeva già che cosa dire?
"A Venezia è stato piacevole, io parto da un presupposto: viviamo in una società in cui uno che commette un reato viene discriminato e messo in disparte dall’opportunità che si chiama vita. È chiaro che dipende dalla gravità del reato, ma io penso che sia giusto dare a un essere umano una chance per dimostrare a se stesso e poi alla società che farà tesoro della sua esperienza".
Di questi tempi non è una posizione esattamente popolare...
"Ne abbiamo parlato anche con mia moglie e lei mi ha detto: prova a pensare se una di quelle persone magari domani si troverà nella situazione di difendere tua figlia...Poi nessuno si illude che sia facile, serve una crescita personale molto profonda e sostenuta. Ma io sono d’accordo con questa visione, non sappiamo mai nella vita chi potrà aiutarti, se ragioniamo senza facili moralismi. E da parte mia, se posso ispirare a migliorare, mi fa solo piacere pensare che qualcuno vedere il proprio passato in modo diverso. A Venezia c’erano ragazzi molto più giovani rispetto alle altre volte".
Perché?
"Non lo so, so che all’interno del carcere molti ragazzi si stanno avvicinando alla cultura dello sport, con quello che implica in termini di comportamenti civili. A me è venuto facile parlarne perché la mia tesi di laurea era sul concetto dell’esperienza dello sportivo come crescita personale dell’individuo. Devo dire la verità, stavolta ho avuto buone sensazioni. Poi è chiaro che è una semina lunga".
Che domande le hanno fatto?
"Quasi tutti mi hanno chiesto come gestivo le difficoltà per raggiungere i risultati. La loro situazione è diversa, ma c’è un parallelismo nella necessità di trovare un punto di riferimento: che sia Dio, un allenatore, una fidanzata o un amico, tutti hanno bisogno di sentire qualcuno vicino. Loro i guai se li sono cercati, per carità. Ma da questi incontri anche io mi porto sempre a casa qualcosa di importante".
Lei ha vissuto uno sport che richiede una disciplina ferrea. Si è mai sentito prigioniero?
"Capisco benissimo la domanda. Dal primo giorno quando avevo 6 anni e sono entrato in palestra, è stato un colpo di fulmine, sono stato rapito dalla visione di quello che avrei potuto realizzare. Non è stata una passeggiata, tra difficoltà, infortuni, operazioni e la paura di non riuscire, ho avuto più sconfitte che vittorie. Ma rifarei tutto, per fortuna ho avuto genitori che sono stati i cardini per capire i reali valori nella vita. E sa qual è il paradosso? Ho vissuto tutti i sacrifici della carriera come uno spazio in cui esprimere la mia libertà, poi mi sono sentito prigioniero nei primi tre anni dopo il ritiro dalle gare".
E come si è ripreso?
"Devo ringraziare mia moglie Valentina. Anche se la chiamo così non siamo sposati, stiamo aspettando che cresca la nostra Eleonora che ha un anno. Quando camminerà potrà farci da damigella e ci sposeremo".
È più importante educare alla sconfitta o alla vittoria?
"Quello che fa la differenza è sempre la capacità di portarci a casa una buona lezione di vita, sia quando non va bene, ma soprattutto quanto il risultato lo ottieni. Non è per niente facile capire che la vittoria non è la conclusione del viaggio, ma solo una parte del percorso".
Lei ha vinto e ha creato un esercizio che porta il suo nome, il movimento Cassina. Chi è il suo erede?
"Mi rivedo in Carlo Macchini, un ragazzo marchigiano che sa fare il movimento Cassina. Ho avuto il piacere di allenarlo alla Pro Carate, io che ringrazierò sempre la Ginnastica Meda dove sono nato. Ovviamente lui sta raggiungendo grandi risultati per meriti suoi e dei suoi allenatori, ma è un bravo ragazzo con valori importanti".
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