80 anni col pugno alzato. Smith e un gesto storico nel ‘68 dei diritti civili che ispirò anche Mennea
Il primo sprinter a correre in meno di 20 secondi sui 200 metri (19“83) è ricordato per quel guanto nero verso il cielo, con il compagno Carlos, sul podio di Città del Messico. Un’immagine che lanciò i sogni di Pietro.
Non ci fosse stato lui, l’Italia dello sport si sarebbe persa un Grande del Novecento. Perché è stato Thomas C. Smith, da oggi ottantenne, il padre putativo di Pietro Mennea. L’idolo, il simbolo, il punto di riferimento di un ragazzo del Sud nostro, cresciuto tra la polvere e la ghiaia di Barletta, lontano anni luce dalle affascinanti suggestioni e dalle tremende contraddizioni di una America non di rado oscenamente ingiusta.
Nel 1968 Pietro aveva sedici anni. Guardava su un piccolo televisore in bianco e nero le immagini dei Giochi olimpici di Città del Messico. E lo vide: vide Tommie Smith, primo uomo al mondo capace di correre i 200 metri piani in meno di 20 secondi. Per la precisione, in 19”83.
Chi ha l’età per ricordare sa che non esagero: non c’è mai più stata, sulle piste e le pedane dell’atletica, un’Olimpiade come quella messicana. In pieno Sessantotto, l’immaginazione andò al potere. Dick Fosbury inventò il salto in alto stile gambero. Bob Beamon migliorò di oltre mezzo metro il record nel salto in lungo, atterrando ad 8,90. E l’altura favoriva miracoli a ripetizione nelle prove di velocità pura.
Avrebbe poi raccontato Mennea che di fronte a quei prodigi, ecco, lui aveva la sensazione di sognare ad occhi aperti. Siccome adorava i 200, Tommie Smith si trasformò all’istante nel suo eroe.
Non solo. Mai credere a chi ostinatamente pretenderebbe che la politica restasse estranea allo sport. Perché c’è politica e politica. E così Mennea vide anche, al momento della cerimonia di premiazione, Smith e il connazionale Carlos, medaglia di bronzo, animare una spettacolare protesta silenziosa. Andarono sul podio ed accolsero l’inno nazionale americano tenendo la testa bassa, alzando un pugno in un guanto nero. Era il loro modo di denunciare la persistente discriminazione razziale negli Stati Uniti. Dove non era cambiato granché rispetto al 1936: Jesse Owens, fortissimo pure lui anche sui 200, aveva sì demolito le teorie ariane di Hitler all’Olimpiade di Berlino, ma al ritorno in patria, con quattro ori al collo, non era stato ricevuto alla Casa Bianca dal presidente Roosevelt. Perché era nero.
Per avere testimoniato la verità scomoda, Smith e Carlos furono cacciati dai Giochi e al ritorno in patria subirono angherie e vessazioni. Peggio ancora andò a Peter Norman, l’australiano arrivato secondo nella finale messicana: indossò un distintivo in segno di solidarietà con i colleghi e a casa venne incredibilmente perseguitato per decenni. Soltanto nel 2012, sei anni dopo la sua morte (Smith e Carlos andarono a rendergli omaggio al funerale), il Parlamento australiano gli chiese scusa a nome della nazione. Così: "Questo Parlamento:
1) riconosce lo straordinario risultato atletico di Peter Norman, che vinse la medaglia d’argento nella gara dei 200 metri piani ai giochi Olimpici di Città del Messico del 1968, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano;
2) riconosce il coraggio di Peter Norman nell’indossare sul podio uno stemma del “Progetto Olimpico per i Diritti Umani”, in solidarietà con gli atleti afro-americani Tommie Smith e John Carlos, che effettuarono il saluto di “potere nero”;
3) si scusa con Peter Norman per non averlo mandato ai Giochi di Monaco 1972, nonostante si fosse qualificato ripetutamente; e
4) riconosce tardivamente il significativo ruolo che Peter Norman ebbe nel promuovere l’uguaglianza di razza".
Vedete quante cos’è stanno chiuse negli 80 anni di Smith? Compreso quel 19”83: rimase record planetario sui 200 fino al 1979. Quando sulla stessa pista messicana l’erede bianco fermò i cronometri sul 19”72.
Era Pietro Mennea, diventato nel frattempo fratello di sangue di Tommie, l’uomo che alzò il pugno.
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