Aveva 89 anni, una carriera da inviato tra calcio, ciclismo e sci. Addio a Ormezzano, gigante del giornalismo
La prima volta che ho incontrato Gian Paolo Ormezzano, spentosi ieri a 89 anni, lui non se ne è accorto....

Gian Paolo Ormezzano aveva 89 anni
La prima volta che ho incontrato Gian Paolo Ormezzano, spentosi ieri a 89 anni, lui non se ne è accorto. Capita ai Grandissimi del racconto: io ero un bambino, lui curava la rubrica sportiva su Famiglia Cristiana, il settimanale che all’epoca, primi Anni Sessanta, si trovava solo in chiesa. Mia nonna Gina comprava sempre la rivista e ogni giovedì avvertivo l’esigenza di andare a trovarla. Per leggere, a sbafo!, il mitico GPO, sigla che faceva venire in mente una Ferrari (e magari pure per quello Gian Paolo e il Drake erano amicissimi).
Ah, Ormezzano! Narreranno di lui inevitabilmente tante cose e faranno bene, ci mancherebbe. Io mi limiterò ad affermare, senza timore di smentita, che è stato il più bravo di tutti. A scrivere di sport e non solo, perché la sua cifra esistenziale comprendeva tutto. Gian Paolo non era la classica “firma”, apparisse su Tuttosport o sulla Stampa, simboli della Torino che insieme amava e detestava, beh, sì, tu che lo leggevi afferravi che dentro e dietro c’era tanto di più.
Ah, Ormezzano! Meglio di Brera e meglio di Mura, che pure adorava, perché in lui non c’era spazio per il birignao vagamente letterario. Gian Paolo aveva visto in diretta i funerali del Grande Torino, aveva incrociato il tramonto di Coppi e di Bartali, aveva visto le luci di Merckx e Gimondi, poi era andato avanti, avanti, avanti. È stato testimone di decenni e decenni, ha vagato come Ulisse facendo il testimone di vittorie e disfatte, orrori ed entusiasmi. E nessuno era lesto come lui alla macchina da scrivere, quando ancora non era stato inventato il computer portatile. Un Fenomeno di stile nella velocità di esecuzione: preparava un editoriale di cento righe, perfetto nei toni e nei contenuti, nei cinque minuti che precedevano la chiusura del giornale in tipografia (nel 2013 gli chiesi la postfazione a un mio libriccino su Pantani e Armstrong, gli dissi che serviva entro una settimana. Mi arrivò dopo due ore. Perfetta, ovviamente).
Ah, Ormezzano! Mia nonna non c’era già più nel 1985, quando fisicamente ci conoscemmo. Bormio, mondiali di sci alpino. Mi prese immediatamente sotto tutela e dopo ad ogni Olimpiade (ne ha descritte dal vivo persino più di me e ce ne vuole) era una festa ritrovarci sul lavoro, lui mi accoglieva storpiando il mio dialetto modenese, io gli citavo Valentino Mazzola, idolo di mio padre, e inesorabilmente si finiva a celebrare Pulici e Graziani, rievocando il titolo che da direttore di Tuttosport fece per lo scudetto granata del 1976, “Toro Lassù qualcuno ti ama”.
Sarei tentato di aggiungere, a questo punto, che il giornalismo sportivo non esisterebbe, per come l’ho vissuto io, se non ci fosse stato lui. E potrei dichiarare che Ormezzano eredi non ne ha, perché lui è stato non speciale, ma unico.
Però, però. Nel salutare il Maestro irripetibile, mescolerò sacro e profano, come garbatamente piaceva a lui.
Nel 2001 mi raccontò la sua disperazione di padre, quando il figlio fu massacrato di botte solo per aver partecipato alle proteste contro il G7 di Genova. E non dimenticherò mai il suo inorridito stupore dinanzi alla violenza di Stato.
Ma Ormezzano è stato anche gioia di vivere. Nel 1988 stavamo a Calgary, Olimpiade invernale con Tomba superstar. Una sera mi disse: vieni con me nel tal locale, c’è una ballerina uguale a Marilyn Monroe. Andiamo, guida lui, un po’ troppo veloce. Una Giubba Rossa canadese ci ferma, io mi spavento ma GPO fa: tranquillo, ci penso io, spiegherò che stiamo correndo a trovare un collega nostro finito all’ospedale. Okay, la Giubba Rossa ascolta, abbozza e se ne va. Visto, tutto a posto, esclama Ormezzano. Ma all’ingresso del locale la Giubba Rossa è lì che ci aspetta. E GPO, imperturbabile: lo sapevo che Marilyn piaceva anche a lei, le va una birretta offerta dal mio giovane collega che viene dalla terra di Enzo Ferrari?
Andò così e ne abbiamo riso per decenni. Ti sia lieve la terra, maestro mio (questa è di Brera, sono sicuro che l’hai riconosciuta).
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