I Fenomeni in panchina, i nuovi campioni in campo: e il volley sogna due medaglie

L’esperienza di Velasco e dei suoi allievi alla guida delle due nazionali azzurre che si giocano le semifinali con atleti nati dopo la grande epopea degli anni novanta

di DALL’INVIATO DORIANO RABOTTI -
7 agosto 2024
Julio Velasco con Paola Egonu

Julio Velasco con Paola Egonu

Qualcuno attribuisce a Julio Velasco addirittura doti divine, e ovviamente esagera. Ma è un dato di fatto che questi Giochi parigini stanno mostrando in modo evidente quanto la pallavolo azzurra continui a risentire degli effetti benefici di una rivoluzione che ha tanti simboli in campo e uno in particolare in panchina, senza fare torto a nessuno.

Il ragionamento ha un fondamento storico, ma soprattutto morale. Da quell’Europeo vinto nel 1989 con una nazionale che fino ad allora aveva conquistato al massimo un bronzo olimpico (in una edizione boicottata, senza il blocco sovietico, a Los Angeles 84) e un argento mondiale (in casa, il Gabbiano d’Argento del ‘78), la pallavolo azzurra ha preso il volo ed è cambiata in modo definitivo. Sono arrivate vittorie a raffica con la nazionale maschile, tre mondiali, medaglie olimpiche, e con i club. Poi anche le ragazze hanno vinto un mondiale, con Bonitta nel 2002, e si sono gradualmente installate sempre al top almeno d’Europa, tra club e nazionali.

Parliamo di un processo che, con naturali alti e bassi, va avanti ormai da più di trent’anni. Che è stato reso possibile da quel primo incredibile successo, dall’incubazione precedente con la nazionale juniores di Skiba, ma soprattutto dalla semina lunga che ne è derivata.

Per questo non è giusto ridurre tutto ai singoli, anche se Velasco è ovviamente l’uomo da copertina di questa rivoluzione culturale e pratica. Ma non è solo questione di aver vinto e aperto le porte del Paradiso, dopo decenni di purgatorio. E’ molto più importante aver lasciato una eredità di conoscenze e valori che si è manifestata negli anni seguenti, trasportata in giro per campi e palazzetti da chi faceva parte di quelle squadre e ha imparato bene i veri motivi per cui vincevano tutto (o quasi, poi ne parleremo). Portatori sani dell’arte di vincere.

Non c’è ombra di dubbio che se oggi abbiamo i Giannelli e i Michieletto, le Bosetti e le Egonu, è perché abbiamo avuto prima i Bernardi e i Giani, le Lo Bianco e le Togut.

E arriviamo al punto. Nelle partite per assegnare le medaglie che si giocheranno da qui a domenica, ci sono tanti rappresentanti di quegli anni che occupano posti importanti nella conduzione delle squadre. L’Italia è allenata da De Giorgi, che ha anche la ‘fortuna’ di non aver partecipato alle spedizioni olimpiche dei grandi rimpianti azzurri, Barcellona e soprattutto Atlanta. Nel ‘96 c’era anche Andrea Giani, che guiderà la Francia contro gli azzurri, e purtroppo per noi anche lui ha bevuto alla stessa fonte dell’esperienza. Nell’Italia femminile con Velasco in panchina ci sono Massimo Barbolini, che lo aiutò a iniziare la rivoluzione nei club a Modena, e Lorenzo Bernardi che era il suo braccio in campo.

In campo però ci vanno i giocatori. E nessuno di questi ragazzi e ragazze ha potuto vedere in diretta quei momenti di inizio anni ‘90, perché tutti sono nati dopo. Solo Moki De Gennaro era già nata, per capirci. Ma era una bimbetta.

Quindi tecnicamente non si può dire che i giocatori e le giocatrici che vanno in campo adesso siano stati inspirati direttamente dalla Generazione dei Fenomeni: hanno visto le loro partite, ma solo anni dopo, magari spezzoni su Youtube. E questo è paradossalmente un bene.

Perché rispetto alla generazione intermedia, che ha sicuramente subito il peso di un’eredità tanto ingombrante, le azzurre e gli azzurri che vanno in campo adesso hanno la mente più libera. Ma hanno anche la fortuna di poter attingere alle esperienze di chi quegli anni li ha vissuti e può trasmettere il sapere.

Si torna sempre a Velasco (che peraltro ha avuto un altro ruolo decisivo in questa storia, creando il Club Italia da cui moltissime azzurre della nazionale di oggi sono uscite): in quasi quarant’anni non l’abbiamo mai visto così calmo e controllato, in panchina. Sicuramente ha un’età più matura e la pelle più dura, anche a causa dei (pochi) insuccessi. Ma ha anche un atteggiamento adatto a dialogare con una generazione che è molto diversa, e richiede un ‘codice’ di comunicazione adeguato ai tempi. La stessa cosa sta facendo De Giorgi, con modi ovviamente legati alla propria personalità: basta vedere i time-out per capire che i motivatori urlanti alla ‘Ogni maledetta domenica’ non servono più, a volte sono controproducenti perché sono molto diverse le orecchie che ascoltano.

Vada come vada, la vera vittoria del volley in questi Giochi di Parigi è la capacità di far dialogare tra loro generazioni e mondi così diversi, uniti dal sogno di una medaglia.

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