Lea Pericoli, il tennis e la sua Divina: "Io portavo in campo eleganza, grinta, sorrisi. Sinner? È unico"

Dall’esordio nel Kenya inglese, dove tutti giocavano, ai successi mondiali. "Con i miei gonnellini corti non volevo provocare, ma sperimentavo. Ora manca un po’ di divertimento. Jannik non è solo bravo, è un campione".

di PAOLO GRILLI
12 febbraio 2024
Lea Pericoli è morta a 89 anni

Lea Pericoli è morta a 89 anni

Innovatrice e ambasciatrice del nostro tennis, antesignana come sportiva in prima linea nella campagne sociali, orgogliosamente all’avanguardia contro i pregiudizi. Lea Pericoli, la ‘Divina’, ha sempre visto lontano e in fondo si aspettava l’exploit di Sinner all’Open d’Australia e anche degli azzurri in Davis.

"Magari non credevo che Jannik trionfasse subito a Melbourne – dice – ma certo la strada era tracciata per lui. Non possiamo che essere felici per questo successo. Un buon giocatore si può costruire, qui mi sembra invece che siamo di fronte a qualcosa di diverso, a un campione sotto ogni punto di vista. Ma poi possiamo anche contare su ottimi atleti che hanno reso possibile l’impresa in Davis".

Da qualche anno a questa parte l’Italtennis vola e abbiamo definitivamente superato un periodo non certo glorioso.

"Io non la vedo così. Mi piace pensare che l’Italia abbia avuto una lunga serie di campioni. Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta, certo, ma non solo. Io vorrei ricordare Beppe Merlo, due volte semifinalista a Parigi e inventore del rovescio a due mani. Ci siamo sempre fatti valere, come movimento. Ed ero speranzosa sul fatto che prima o poi saremmo tornati al top. Con le ragazze ci eravamo già riuscite di recente, per i ragazzi era solo questione di tempo".

Sinner le ricorda qualche grande del passato, in particolare?

"Sinceramente no, ma non bisogna per forza assomigliare a qualcuno. Anzi. E poi, tutto è cambiato nel tennis".

Ci racconti dei suoi esordi sul campo.

"Iniziai a giocare a dieci anni, ad Addis Abeba, dove vivevo con la mia famiglia. Poi andai a studiare a Nairobi, in un collegio di suore. Il Kenya era una colonia inglese, tutti facevano tennis. Lì esplose il mio amore per questo sport. A diciassette anni rientrai in Italia per dare il via alla mia lunghissima carriera, una magnifica avventura".

Lei ha anticipato i tempi, intravedendo nello sport un mezzo per decollare a livello personale. E arrivando a sfidare le migliori al mondo.

"Era tutto diverso. Posso candidamente dire che noi non prendevamo una lira per giocare, non sarebbe stato nemmeno pensabile. Adesso questi ragazzi guadagnano tanto... beati loro! Ma non voglio fare la morale a nessuno. Ora ci sono più aspetti da curare, ma in fondo è più facile. Io poi scendevo sempre in campo anche con il preciso obiettivo di essere anche elegante".

Il suo gonnellino corto esibito per la prima volta nel 1955 a Wimbledon fece scalpore, in un’epoca che prevedeva ancora una mise castigata per le atlete.

"Non era mia intenzione provocare, semplicemente trovai meravigliose le creazioni di Ted Tinling, uno straordinario sarto inglese. Portarle nel torneo fu un onore. Non è affatto un caso che ora quel completo sia esposto al Victoria & Albert Museum di Londra. C’era grande estro, la voglia di sperimentare. Arrivai ad indossare anche un gonnellino di visone, ma il massimo fu quello coi diamanti che vestii in Sudafrica".

La giornata più memorabile della sua carriera?

"La vittoria contro la leggendaria Billie Jean King. Si può anche sostenere che quel giorno lei abbia giocato la sua partita peggiore, ma vado ben fiera di quel risultato".

Qualcosa che va oltre i guadagni.

"Non ho proprio rimpianti, anzi. Ho amato il tennis e mi ha insegnato tanto. Ho imparato a saper perdere con il sorriso, a ricominciare sempre, un quindici dopo l’altro. Non potevo chiedere di più. Che cosa manca ora? Credo il divertimento di stare in campo e competere. Il nostro era sempre garantito, ora mi sembra molto meno".

Lei è stata anche testimonial della lotta ai tumori dopo averne vinto uno, nel 1973.

"Allora si parlava di ’brutto male’, quelle poche volte che si osava poi farne menzione. La malattia passava sempre sotto silenzio, era un tabù. Io cercai di cambiare la prospettiva, e credo di essere stata tra le prime, se non la prima. Volevo dare la giusta e doverosa speranza a chi si ritrovava in quelle condizioni. Le avevo vissute sulla mia pelle, non capivo perché dovesse prevalere invece lo scoramento, quasi la vergogna. Bisognava definire tutto una ’difficile esperienza’, qualcosa di superabile. Quando mi battevo per questo, erano tutti sconvolti. Io poi ho superato una seconda battaglia di questo tipo anche negli ultimi anni".

Che consiglio si sente di dare ai ragazzi d’oro dell’Italtennis?

"Non devo insegnare loro nulla, la Federazione sta facendo un grandissimo lavoro. Ai più giovani che fanno tennis, dico che è uno sport da non abbandonare mai, perché è uno dei più educativi. Non è aritmetico, puoi faremeno punti dell’avversario e vincere la partita. Ti dà tante chance di rialzarti, come è successo a Sinner in finale".

Non da oggi il gossip impazza e invade il campo dello sport. Questa domanda devo fargliela: davvero non ci fu mai nulla con Pietrangeli?

"No, davvero (ride, ndr). Noi siamo stati i migliori amici possibili. E quando Nicola mi chiede come mai non sia mai successo niente tra noi, gli rispondo così: “Perché io avevo sempre uno, e tu ne avevi sempre due“".