Le cinquanta discese di Zoeggeler. "L’oro a Torino fu indimenticabile. In Italia serve una pista per i giovani. La mia passione? Allevare cavalli"

L’ex atleta azzurro, e oggi direttore tecnico delle nazionali, festeggia il primo mezzo secolo. E a chi gli chiede se lo spirito sia lo stesso dei vent’anni risponde: "Sì, ma ora sono più diplomatico"

di GABRIELE TASSI
4 gennaio 2024

Armin Zoeggler compie cinquanta anni (Foto Fisi/Pentaphoto)

Lillehammer 1994: trent’anni fa il bronzo ’accese’ la fame del Cannibale. Oggi, cento podi più tardi, festeggia un mezzo secolo letteralmente senza freni Armin Zoeggeler, l’imperatore dello slittino azzurro. Veloce e vincente. Basti pensare ai sei titoli mondiali, quattro europei e dieci Coppe del Mondo, oltre a sei medaglie individuali consecutive ai Giochi olimpici, che hanno proiettato nella leggenda l’oggi direttore tecnico delle squadre di slittino azzurre.

A vent’anni la prima medaglia olimpica (bronzo). A 23 la prima Coppa del Mondo e a 28 l’oro di Salt Lake City. Che differenza c’è fra l’Armin di vent’anni e quello di 50?

"Confesso di sentirmi come allora. Ma in realtà so di essere maturato molto: faccio ancora sport, mi tengo in forma, ma soprattutto sono più diplomatico, l’età mi ha regalato la capacità di essere meno impulsivo".

Insomma, possiamo dire che dopo il ritiro lei non ha mai smesso di andare veloce?

"Mi è stata data la grande possibilità di lavorare in federazione grazie a Flavio Roda (presidente Fisi, ndr) e io l’ho colta al volo. La vita non è certo diventata più facile: prima ero responsabile solo di me stesso, fortunatissimo di aver fatto la vita dell’atleta e del mio hobby una professione (grazie anche al Gruppo sportivo Carabinieri). Ma ora da me dipende una squadra".

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

"Mai dimenticherò la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Torino 2006. Lì ho confermato il mio ranking, ma soprattutto l’ho fatto in casa, dove gareggiare è molto bello, ma senti addosso una pressione inimmaginabile".

E il più brutto?

"La morte del collega georgiano Nodar Kumaritashvili ai Giochi di Vancouver del 2010 dopo un’uscita di pista. Una tragedia che mi è rimasta dentro".

Il giorno dopo si gareggiò e lei conquistò il bronzo, con che animo si scese in pista?

"Da atleti bisogna sempre cercare di mettere da parte la paura e gareggiare, scendere con rispetto e concentrazione. La determinazione fa la differenza".

Quando capì che era tempo di ritirarsi?

"Nel 2013 passai un anno complicato per via di alcuni dolori alla schiena. Da lì la decisione di saltare i mondiali per preparare bene le Olimpiadi 2014. L’obiettivo era arrivare sul podio: a Sochi vinsi il bronzo, e a quarant’anni decisi che sarebbe stata l’ultima discesa".

Cosa fa oggi oltre lo sport?

"In estate vado in bicicletta. Poi mi piace andare a caccia con gli amici. Sono inoltre un piccolo allevatore di cavalli, un passione che mi ha trasmesso mio padre. Questi animali mi hanno sempre regalato la tranquillità che cercavo fuori delle gare".

A proposito, sua figlia Nina ha seguito le sue orme, che ne pensa?

"Mi rende molto felice, soprattutto perché è stata una scelta sua. Non la seguo io direttamente, è in squadra come qualunque altra atleta".

Verso le Olimpiadi 2026, la pista da bob che rischia di non essere in Italia è già diventata un caso...

"Cesana o Cortina va bene. Ma a prescindere da tutto è indispensabile vi sia una pista in Italia. E’ importante per Skeleton, Bob e slittino: stare al passo con la concorrenza è molto dura e se non c’è una pista è impossibile far crescere nuovi atleti.

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