Il ruolo e la posizione dell’islandese. L’unicità tattica di Gud, il 10 circumnavigante
Il giovane calciatore Albert Guðmundsson, con le sue caratteristiche uniche da falso dieci, porta speranza e cambiamento alla squadra viola, grazie alla sua eredità familiare e al suo stile di gioco poliedrico.
Anche il figlio di Hamrin ha detto di avere avuto un sobbalzo nel vederlo entrare in campo domenica scorsa: quei calzettoni abbassati alle caviglie stile ribelle anni ‘60; e poi quel fisico minuto sorretto però da cosce scolpite; e poi quell’idea di ghiaccio pronto ad incendiarsi che emanano i giocatori in arrivo dal Nord Europa quasi fossero geyser prestati al calcio.
Sì, fisiognomicamente Albert Guðmundsson da Reykjavik sembra davvero avere moltissimo di Kurt Hamrin, l’uccellino che fra il 1958 e il 1967 seppe far volare l’orgoglio dei tifosi viola a vette altissime di calcio. Anche se poi in realtà sul campo, Albert sembra essere altro. Non un 7 spietato in cerca perenne dell’area di rigore ma un 10 atipico che ama svariare per il prato in più posizioni quasi fosse un maratoneta del ruolo. Se infatti esiste da tempo la categoria vasta del falco nove, lui sembra appartenere a quella più ristretta dei falsi diez.
Gudmundsson non è un 10 regista come lo è stato De Sisti; non è un 10 trequartista alla Rui Costa e nemmeno un 10 centravantato come Montuori; non è poi un 10 totale come Giancarlo Antognoni e nemmeno un 10 seconda punta come lo sono stati Mutu e Baggio, che avevano il loro regno illuminato sul confine dell’area di rigore. No, lui sembra essere altro: un 10 circumnavigante che ama viaggiare per il prato senza dare punti di riferimento precisi. Un atleta letterario che, analogamente al libro della Tamaro, va dove lo porta il cuore quasi avesse dentro l’istinto naturale del calciatore totale. Una suggestione? Chissà. Di certo il calcio è stata da sempre la sua palestra di vita visto che buona parte della famiglia è cresciuta a stoccafisso e pallone. Il padre Benediktsson è oggi un allenatore famoso per alcune esultanze da seconda voce in tv durante i campionati d’Europa del 2016, una sorta di Adani in salsa tartara insomma.
La madre Helga è stata calciatrice della nazionale come il nonno materno, Ingi Bjorn Albertsson, che ha pure vinto il titolo di capocannoniere del campionato islandese. Il bisnonno suo omonimo, invece, è stato il primo islandese a giocare nel calcio professionistico scozzese. Poteva uno con un ambiente familiare simile sfuggire all’attrazione del football? Gudmundsson, il calciatore venuto dal ghiaccio che ha riacceso i sogni dei tifosi viola. Il falso dieci che potrebbe cambiare la fortuna di una squadra che, fino alle 13 e 30 di domenica scorsa, e dunque prima del suo ingresso in campo, sembrava senza logica e senza identità. Certo, uno a questo punto potrebbe dire non a torto: ma dopo solo 45 minuti e due gol su rigore non vi sembra un po’ presto per scrivere ciò? Vero. Ma il calcio non è razionalità e nemmeno logica. Il calcio oggi è uno dei pochi luoghi dove hanno ancora cittadinanza l’utopia e la speranza. E quando arriva un portatore sano di euforia come Gudmundsson, azionare l’estintore della ragione sarebbe solo un errore grossolano che negherebbe una delle qualità migliori del calcio. Quella di sognare foss’anche a sproposito.
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