Un mental coach per giganti

La figura del consulente psicologico è diventata ormai un punto di riferimento per affrontare i momenti critici delle prove, come nel caso della qualificazione del pesista Leonardo Fabbri

di LEO TURRINI – DORIANO RABOTTI
2 agosto 2024
Cafè Paris

Cafè Paris

Caro Doriano, sai meglio di me quanto e come da anni sia diventata importante, nello sport moderno, la figura del “mental coach”. Cioè quel professionista che aiuta l’atleta nella gestione psicologica dell’evento agonistico, fondamentale essendo per i campioni o aspiranti tali la capacità di controllare le emozioni. Bene. Anzi, male. Malissimo. Nella prima notte magica dell’atletica, di colpo mi sono trovato a pensare al “mental coach” di Leonardo Fabbri, il nostro gigante buono, il giovane uomo che stasera potrebbe celebrare una impresa straordinaria nel lancio del peso (per inciso, specialità reputata la più antica storicamente, tanto che ad Atene nel 2004 i pesisti furono gli unici cui fu concesso di esibirsi nel sacro recinto di Olimpia). Perché pensavo allo psicologo di Super Leo? Ma perché dopo due tentativi era sull’orlo di una umiliante eliminazione. La tensione stava divorando il colosso. Un altro errore e l’ipotesi di gloria si sarebbe trasformata in certezza di disfatta. Cosa vuoi che ti dica? Per lunghissimi istanti ho pregato che il Dio degli strizzacervelli ce la mandasse buona. Altrimenti, la delusione sarebbe stata tremenda. È andata. Sull’orlo di una crisi di nervi, l’adorabile Fabbri è uscito dalla buca. In finale ci è arrivato. Se per caso vince l’oro, il mental coach lo intervisti tu.

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Caro Leo,

per un oro di Fabbri sono pronto a intervistare tutto l’albo degli psicologi di Firenze e anche della provincia, se serve. Perché effettivamente non deve essere facile dopo una stagione pazzesca come quella di Leonardo avere tre soli colpi a disposizione per dimostrare la propria forza.

Qui si potrebbe aprire un altro capitolo, quello che riguarda la sproporzione tra la durata di una gara e il tempo dedicato alla sua preparazione. Qualche atleta, penso al fiorettista Tommaso Marini, l’ha anche detto pubblicamente dopo la delusione: tre anni di lavoro buttati via in pochi minuti, e sarebbero stati quattro se Tokyo non fosse slittata per la pandemia. Ma appunto, questo è un altro discorso, che riguarda la crudeltà della prova sportiva. Magari lo faremo un’altra volta.

Torniamo ai mental coach, che per anni sono stati chiamati con superficialità ‘motivatori’, come se un atleta che punta a un podio olimpico avesse bisogno di una spinta per impegnarsi. Negli ultimi anni le figure del mental coach si sono moltiplicate perché 1) gli atleti, giustamente, non provano più una sorta di pudore nell’ammettere che hanno bisogno di essere aiutati 2) molti hanno visto che effettivamente questo tipo di aiuto psicologico permetteva a sportivi magari meno aggressivi di altri di mettere in mostra il loro talento.

Nello sport, come nel lavoro e nella vita, per fortuna non siamo tutti uguali. C’è il collega che ha bisogno di una strigliata per rendere al meglio e c’è quello al quale è più utile una carezza.

Allo stesso modo, anche nel corpo di un gigante come Fabbri abitano un cervello e un cuore, che fortunatamente sono organi imperfetti, soggetti a imprevedibilità e colpi di vento del destino. Queste Olimpiadi ci stanno proponendo molte storie di ragazzi che riescono a fare i conti con la sconfitta o la delusione senza farla diventare un dramma.

Non so se i mental coach abbiano avuto un ruolo, in questo che secondo me è un avanzamento. Sospetto di sì, intanto vado a procurarmi l’albo degli psicologi di Firenze. E provincia.

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