Bebe Vio, l'atto terzo di un simbolo del movimento paralimpico

La 27enne veneziana, simbolo del movimento, cala il tris a Parigi. Andrà a caccia dell’ennesima medaglia

di LORENZO LONGHI -
27 agosto 2024
La campionessa azzurra di scherma paralimpica, Bebe Vio

La campionessa azzurra di scherma paralimpica, Bebe Vio

Parigi, 27 agosto 2024 – L’abbiamo vista sfilare con un abito tutto piume nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Parigi, lo scorso 26 luglio, unica italiana sul palco in quella che lei, emozionata, ha definito “la cerimonia sbagliata”. Ma di sbagliato, nella vita di Bebe Vio Grandis (dal 2021 ha aggiunto, assieme a fratello e sorella, anche il cognome della madre), c’è davvero poco, al netto di ciò che, in fondo, l’ha forgiata nel carattere, nello sport e nello spirito. Quello che, per dire, l’ha vista commentare la sua presenza quel giorno con un memorabile “se ci penso mi emoziono ancora tantissimo, e mi viene la pelle d’oca, anche sulle protesi!”.

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Una stoccata decisiva. Una delle tante per la 27enne schermitrice veneziana, un personaggio, come direbbero gli inglesi, "larger than life”, effettivamente fuori dall’ordinario. Con due ori nel fioretto individuale a Rio e Tokyo (dove fu portabandiera, assieme a Federico Morlacchi), impreziositi rispettivamente da un bronzo e un argento nel torneo a squadre.

Vio vivrà a Parigi la sua terza edizione delle Paralimpiadi, e lo farà da icona incontrastata dell’intero movimento. Un volto dalla notorietà globale diventato emblema di chi, come da recente campagna del Comitato Paralimpico Internazionale, "non partecipa, ma gareggia”, alla faccia di chi ancora racconta lo sport paralimpico in modo paternalistico, guardando i segni sul volto e le amputazioni per definire una persona. Invece no, è agonismo puro, e così Vio, alla sua terza Olimpiade (a Londra 2012 non poté partecipare, ma solo perché troppo giovane) andrà alla ricerca dell’ennesima medaglia il 4 settembre nell’individuale e il 5 con le compagne di squadra.

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E che sia agonismo anche feroce, Bebe Vio lo ha dimostrato anche a Tokyo, tre anni fa: quattro mesi prima delle Paralimpiadi, in aprile, un’infezione le fece rischiare una nuova amputazione, persino la morte. Lo ha raccontato solo a medaglia conquistata, per non crearsi alibi, e anche per non alimentare la retorica. Pensiamoci: quando un calciatore, o un qualsiasi altro atleta, torna in campo dopo un lungo infortunio (e si parla di fratture, di solito), si accende la spia della letteratura in stile viaggio dell’eroe. Ecco: figuratevi cosa si sarebbe scritto di Bebe Vio. Poi, naturalmente, se ne è scritto ugualmente, abbondando, perché Vio è Vio: da art4sport, la onlus nata dalla sua famiglia, all’ispirazione che porta nelle case di chi la vede in tv, sino a quel motto, "la vita è una figata”, che è il più fedele degli autoritratti.

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