Sinner e i suoi fratelli. "Jannik vincerà ancora. Sa lavorare con il team»
Claudio Pistolesi è un punto di riferimento per i coach di tutto il mondo "Un atleta non è più solo, il dialogo con lo staff ormai è fondamentale".
"Non credo vi siano molti come lui. Di sicuro non in Italia. Gente capace di unire a una carriera importante sul campo da gioco, una seconda da coach di alto bordo, e una terza, più matura, da rappresentante di un’intera categoria". Ecco, nella definizione di Adriano Panatta nel libro-biopic di Claudio Pistolesi C’era una volta il (mio) tennis, è raccolta una vita sul campo. Ex giocatore negli anni ‘80/90 (best ranking 71 Atp), Pistolesi. Poi Coach (con la maiuscola) di top five come Monica Seles o Robin Soderling e dì talenti puri cone Sanguinetti e Bolelli. Poi quattro volte rappresentante dei coach Atp nel Players Council e non solo. Oggi alleva giovani talenti in Florida nella sua Academy con Brad Gilbert. Soprattutto, però, Pistolesi è un autentico rivoluzionario: la figura ufficiale del coach Atp nasce per una sua battaglia e l’ingiusta regola del ’no coaching’ per i giocatori muore grazie a lui.
Lei ha detto: “Nel tennis non si vince o si perde, si muore o si sopravvive“. Il coach in questo quadro gladiatorio come si colloca?
"Il giocatore in campo è molto vulnerabile e ha bisogno di due cose: un punto di riferimento solido e la sintesi. Il primo lo chiamiamo ’hook’, un gancio al quale l’atleta si aggrappa quando sente di precipitare. La seconda è necessaria perché il giocatore non ha tempo per pensare, con una parola ben assestata il coach deve trasferirgli strategie e consigli".
Oggi i giocatori hanno un intero staff in tribuna cui rivolgersi.
"Eh già. Un tempo dopo aver vinto dicevano: ringrazio il mio coach, oggi ringraziano il team. Potersi rivolgere al coach in tribuna è stata una mia personale battaglia iniziata vent’anni fa dopo l’incredibile ingiustizia ai danni di Serena Williams in una finale degli Us Open contro la Osaka, finale rovinata per una sanzione per ’coaching’. Avere rapporto con il proprio allenatore è di grande aiuto. Un esempio: guardate Sinner quando gioca quanto si rivolge con lo sguardo verso Vagnozzi e Cahill e al suo team. Jannik è l’esempio del tennista moderno che lavora di squadra e, quando vince, considera quel successo un suo risultato ma anche della squadra stessa".
Quindi il ’no coaching’, il divieto per il tennista di rivolgersi al coach in tribuna, lo ha abbattuto lei.
"Sì, è stata la mia grande battaglia. L’ho iniziata io e portata avanti con alcuni colleghi nei miei quattro mandati da rappresentante dei coach nell’Atp Player Council. Era una regola sciocca e ipocrita. Ma in quale altro sport non ci si può rivolgere al proprio allenatore? Ma quando mai? Lei ce lo vedrebbe Mourinho zitto in panchina? Nel 2022 abbiamo finalmente cancellato una grande ingiustizia al termine di una battaglia duranta vent’anni".
Panatta nel suo libro polemizza: “Ci sono 1000 coach per 500 giocatori...“.
"Adriano può dire tutto! (ride Pistolesi)- Però lui il coach ce lo ha avuto eccome o forse è meglio definirlo ’mentore’. E’ stato Mario Belardinelli che, magari, non era fisicamente sul campo durante i tornei, ma nella testa di Adriano sì, sempre. Lo ha considerato un secondo padre ricordando spesso come gli abbia insegnato a diventare giocatore e uomo".
Ai suoi tempi da giocatore, giravate il mondo senza coach: oggi c’è uno squadrone di persone che segue i tennisti. Quale la maggior differenza?
"La maturazione. Ai miei tempi a vent’anni giravi il mondo da solo e ci si aiutava l’un l’altro con quelli che poi incontravi sul campo da avversario. E non è un caso che all’epoca l’età media dei top 100 era 23-24 anni e oggi è 29-30 anni. In sostanza, noi maturavamo prima per necessità ed esperienze di vita attorno al tennis. Oggi hanno carriere più lunghe, ma ci mettono di più a maturare come persone".
Qualcuno l’ha definita il ’Garibaldi’ dei coach, anche perché senza di lei, questa figura non esisterebbe, dicono.
"Sì, sono stato io, è vero. Ho lavorato duro per molti anni, con l’aiuto di alcuni colleghi, perarrivare alla figura ufficiale dell’Atp Coach, un ruolo strategico per l’atleta e di collante tra giocatori e circuito. Il giorno in cui, nel 2012, siamo diventati ’members Atp’ riconosciuti ufficialmente lo considero il momento più alto della mia carriera".
Djokovic ha ironizzato acido sull’Atp Award a Cahill e Vagnozzi per il lavoro su Sinner. Dice che lo meritava Ivanisevic.
"Anche questo è un riconoscimento per il quale mi sono battuto e l’ho voluto io. Non sono d’accordo con Nole per un semplice motivo: gli Awards non arrivano per scelta di un pugno di giudici, ma attraverso il voto di tutti e 240 coach membri Atp. Voto più democratico di questo...".
Cosa fa un coach quando un suo giocatore è in stato di grazia e vince a raffica?
"Lo mette ’nel frigorifero’ e tace (ride)".
E quando invece va in tilt?
"Si usa la tecnica dello specchio. Ce lo piazzi davanti e gli dici: questo sei tu, sii onesto con te stesso, guardati dentro,ì tira fuori i probilemi. Bisogna cioè mettere il giocatore in grado di vedere bene se stesso in modo da poter riattivare entusiasmo, voglia, motivazione. Il più delle volte i problemi sul campo arrivano dalla vita di tutti i giorni e bisogna saper ascoltare e comprendere. Siamo esseri umani, non bisogna mai dimenticarlo".
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