Leo Picchi: “La seconda stella dell’Inter è anche di mio padre Armando. Oggi festeggerebbe al santuario di Montenero”

Parla il figlio dello storico capitano nerazzurro della Grande Inter degli anni Sessanta. “Come celebrerebbe oggi questo successo? Davanti al mare di Livorno, con gli amici e poi andando a pregare”

di ROBERTO DAVIDE PAPINI -
23 aprile 2024
Armando Picchi

Armando Picchi

Livorno, 23 aprile 2024 – Mentre gli interisti festeggiano il ventesimo scudetto e la seconda stella, i più anziani non possono non pensare a uno dei grandi protagonisti del decimo scudetto, quello della prima stella, il capitano nerazzurro e livornese doc Armando Picchi. Una leggenda del calcio italiano, scomparso tropo presto a neanche 37 anni.

Per Leo Picchi, figlio di Armando (responsabile dei progetti editoriali del club nerazzurro), questa vittoria ha un sapore particolare.

Picchi, suo padre è stato uno leader dell’Inter campione d’Italia nel 1962-63, 1964-65 e 1965-66 (tralasciando i due trionfi in Coppa dei Campioni e altrettanti nella Coppa Intercontinentale) e in fondo con quei tre scudetti ha contribuito ad arrivare a quota 20. Questa stella è un po’ anche sua?

«Sì, è molto sua. E sono grato al presidente Zhang di averlo precisamente citato nel suo discorso subito dopo la vittoria di lunedì sera. A volte si fa un po’ di confusione su chi sia stato il capitano della Grande Inter e il presidente lo ha riportato esattamente a quel ruolo centrale che merita, che si è conquistato con fatica e sacrificio e che tutti i suoi compagni di squadra con rispetto, affetto e ammirazione gli hanno invece sempre riconosciuto».

Come vive oggi la conquista della Seconda stella, da interista e figlio di una leggenda interista?

«Con grandissimo orgoglio di figlio di un simile padre. Con la gioia di ogni tifoso interista. Con il senso di appartenenza e la gratitudine di ogni dipendente del FC Internazionale Milano»

Sono passati quasi 60 anni, il calcio è totalmente cambiato, ma vede qualcosa di simile tra quel traguardo e questo di oggi?

«Qualche analogia nell’atteggiamento in campo delle due squadre, entrambe dominanti nel gioco, sempre in controllo. E anche un po’ nell’attitudine degli interpreti: molti dei calciatori dell’Inter di oggi mi sembrano, anche un po’ in controtendenza rispetto al nostro tempo e alla categoria professionale alla quale appartengono, come quelli di allora, gli uni al servizio degli altri, con grandissimo senso di responsabilità e appartenenza».

Quella vittoria della decima stella fu una gioia per suo padre che poi la visse con una punta di amarezza. Fu il suo ultimo successo all'Inter.

«Fu una grandissima gioia ma qualche anno dopo confidò al suo fratello maggiore Leo che a quel tempo gli pareva impossibile che fosse l’ultimo successo del ciclo della grande Inter che si chiuse proprio l’anno dopo con due sconfitte brucianti in campionato e in Champions League».

Cosa amareggiò più suo padre: la mancata convocazione ai Mondiali oppure l'addio alla maglia nerazzurra?

«Da quel che ho saputo “interrogando” i miei zii Leo e Mario, furono due dispiaceri enormi. La non convocazione al Mondiale inglese, perché come calciatore era nel pieno della sua maturazione atletica, tattica, mentale e via dicendo. Edmondo Fabbri gli inflisse un dispiacere così grande che non riuscì mai a farsene una ragione. L’addio all’Inter non dico che fosse atteso, ma Helenio Herrera lo inseriva ogni estate nella lista dei giocatori da cedere e i contrasti tra due personalità forti e contrapposte in quel modo lasciava intuire che prima o dopo sarebbe accaduto. Per lui fu comunque un grande dolore lasciare l’Inter».

Per gli interisti vincere lo scudetto in un derby è stata una doppia soddisfazione. Come viveva suo padre la rivalità con i "cugini", almeno per quello che le hanno raccontato, visto che quando è morto lei aveva 2 anni.

«Mi hanno raccontato che viveva il calcio come una delle più grandi passioni della sua vita, ma anche con la serietà e l’impegno indispensabili in una professione di altissimo livello. Inter e Milan erano le due squadre più forti al mondo in quel decennio. Aveva certamente l’ambizione di superare i rivali storici, ma sempre nel rispetto reciproco. Questo lo aggiungo io: ho conosciuto molto bene Giovanni Trapattoni e Giovanni Lodetti e gli ho sentito pronunciare parole di affetto e ammirazione tali verso mio padre che credo non avessero né tempo da perdere né voglia di sfottersi reciprocamente».

Suo padre non ha mai perso la sua livornesità e a Livorno tanti sono tifosi dell'Inter grazie a lui. Come festeggerebbe oggi nella sua città e come festeggiò lui allora, almeno stando ai racconti della sua famiglia?

«Festeggerebbe oggi come allora con gioia e soddisfazione per aver svolto al meglio il suo lavoro e per aver permesso alla sua squadra di raggiungere un traguardo importante. E lo avrebbe fatto davanti al suo mare, circondato dagli amici di tutta la vita e insieme alla sua famiglia. E poi in silenzio e in solitudine o con il suo amico Paolo Saltini sarebbe salito a piedi a Montenero al Santuario della Madonna delle Grazie alla quale era devotissimo, ma forse questo lo avrebbe fatto per un ringraziamento della benevolenza del Cielo e per tutto l’amore e la felicità che nostro Signore aveva messo nella sua vita, non solo per uno scudetto e una stella».