Il ruolo del brasiliano e il suo calcio da tedesco. Piacere, ing. Arthur. Cucio e razionalizzo facendo la "pelopina»

8 novembre 2023
Piacere, ing. Arthur. Cucio e razionalizzo facendo la "pelopina"

Piacere, ing. Arthur. Cucio e razionalizzo facendo la "pelopina"

Del brasiliano sembra avere pochissimo, nemmeno il nome. Lì quasi tutti hanno nomi composti lunghissimi uniti a soprannomi che colorano i romanzi di Jorge Amado e Machado de Assis, lui invece si limita ad un Arthur Melo che potresti ritrovare in qualsiasi ufficio anagrafe italiano. In fondo, anche il suo Brasile è atipico. Nato a Goiana, nell’altopiano centrale dove dal nulla è stata creata la capitale Brasilia, lui non ha mai conosciuto la povertà musicale delle favelas, dove anche il calcio è poesia povera. La provincia bianca metodica e ordinata lo ha probabilmente marchiato fin dall’inizio. E oggi Arthur Melo, per come gioca, più che un brasiliano lo diresti un ingegnere tedesco. Uno che razionalizza dove gli altri fantasizzano, che cuce dove gli altri dilagano, che riflette dove tutto sembra istinto. Caratteristiche messe in mostra fin da subito, nella prima squadra brasiliana importante che lo notò e lo volle nelle proprie fila.

Aveva 14 anni Arthur quando dal Gojas si trasferì al Gremio a 2.000 km da casa, ma anche nel caos caldo di Porto Alegre segnato dalle giocate pirotecniche di Ronaldinho e di Renato Portaluppi, lui non cambiò il suo modo di pensare calcio. E in fondo questo voleva da lui l’allenatore Scolari, con il quale da titolare fisso vinse la Libertadores del 2017. Non fu insomma spropositato se al suo arrivo in Europa al super Barcellona, gli aggettivi si sprecarono. "Arriva il fondamentalista del passaggio", scrisse "El Pais" paragonandolo prima a Iniesta e poi a Thiago Alcantara. E in questo sbagliando. Perché se un accostamento si poteva fare, questo era con Xavi Hernandez, piccolo genio catalano della regia. Si, Arthur somiglia a Xavi per molte cose: la muscolatura forte delle gambe, il baricentro basso, il controllo di palla orientato e poi quella serie rapida e infinita di finte a protezione del pallone che in Spagna chiamano "pelopina".

Con la maglia numero 8 sulle spalle, in Catalogna non fece male, vincendo campionato e supercoppa. Il resto è storia più nota. Il passaggio alla Juve per la cifra ipertrofica di 72 milioni di euro (più 10 di bonus), il fallimento in bianconero, quindi la parentesi inutile a Liverpool e adesso la rinascita in viola. La vita e pure il pallone sono fatti di discese ardite e di risalite. Così, in una squadra di paleggio e di possesso più adatta alle sue caratteristiche, Arthur sembra essersi ripreso il suo tempo.

Ha inglobato la differenza fra il football italiano e quello di altre latitudini ("In Brasile ricevi il pallone e poi ti guardi attorno. Qui è il contrario: devi guardarti attorno prima di ricevere") e adesso è lì a dettare i tempi della manovra viola. Un po’ direttore di orchestra, un po’ diga frangiflutti, comunque un insostituibile. Arthur, il brasiliano che sembra tedesco, imprescindibile nella Firenze calcistica di Italiano, allenatore un po’ tedesco e un po’ siculo che gioca un football quasi olandese. Che magnifica contaminazione geografica che è il calcio.

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