Razzismo nel calcio, Peradotto: “Meglio educare che punire"

Intervista al responsabile dell’ufficio antidiscriminazioni del governo: "C’è tanto lavoro da fare, il calcio è una vetrina importante e proprio per questo può dare una mano verso l’integrazione"

di DORIANO RABOTTI -
30 marzo 2024
"Razzismo: meglio educare che punire"

"Razzismo: meglio educare che punire"

Bologna, 30 marzo 2024 – Mattia Peradotto, romagnolo di Forlì, classe 1989, è il coordinatore dell’Unar, sigla che indica l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali del Governo. Un tema che purtroppo è tornato di grande attualità anche nel calcio, nelle ultime settimane.

Peradotto, che cosa fa l’Unar?

"È l’ente deputato a garantire la parità di trattamento per tutte le persone, a prescindere dalle caratteristiche personali che riguardano il background etnico e di provenienza, ancora oggi uno dei principali motivi di discriminazione, ma anche religione, orientamento sessuale e identità di genere, disabilità ed età".

E come lo fate?

"Svolgiamo due attività principali: raccogliamo le segnalazioni di episodi di discriminazione con il numero verde 800-90-10-10, e poi realizziamo una serie di attività che comprendono iniziative di sensibilizzazione, di formazione e informazione per prevenire la discriminazione".

Il problema del razzismo è maggiore nello sport e nel calcio, o è più grande la vetrina?

"Non penso che ci sia una differenza, il mondo dello sport e del calcio sono uno specchio della società nel suo complesso. Ci sono gli stessi problemi presenti nella società allargata di oggi, tra i quali discriminazione e razzismo. Certo essendo un settore di grande visibilità e impatto, l’elemento vetrina è forte. Ma per lo stesso motivo può permettere di ottenere risultati più incisivi".

È per questo che tenete d’occhio questo mondo?

"L’ufficio ha intensificato l’attività sullo sport perché questo ambiente può fare da moltiplicatore nella costruzione di una cultura condivisa. Da episodi anche gravi si può arrivare a stimolare una cultura che faccia da anticorpo. Per questo lavoriamo con la Lega di Serie A nel progetto Keep Racism Out e con Uisp e Lunaria abbiamo creato il primo osservatorio nazionale su questi fenomeni, che è anche la prima esperienza europea. Abbiamo implementato le attività formative, stiamo mettendo in campo una sensibilizzazione soprattutto del mondo delle squadre giovanili, delle federazioni, compresi gli arbitri. Quello dello sport è un mondo educativo allargato che può aiutare nella prevenzione su stereotipi e discriminazione".

È una semina lunga...

"È chiaro che non ci aspettiamo di non avere più i cori da un giorno all’altro, il caso Maignan lo dimostra. Però ormai l’opinione pubblica inizia a trattare certe situazioni come inaccettabili, questo significa che una maggiore attenzione c’è. Ma è un lavoro giornaliero e costante che continua ad essere necessario".

Le pene non bastano?

"La sanzione fa la sua parte, ovviamente. Proprio nel caso Maignan c’è stata una reazione forte dei club e complessivamente del mondo del calcio. Dal punto di vista personale penso che il lavoro formativo sia ancora molto importante".

A insultare Maignan c’era anche una persona dalla pelle nera..

"Vero. Ma i cori da stadio mischiano piani differenti di potenziale offesa. C’è un limite che non è accettabile superare, quello che divide l’agonismo e il tifo per la propria squadra dalla discriminazione. Dobbiamo fare in modo che questo confine sia considerato non raggiungibile. Il colore della pelle è l’aspetto più visibile, ma ci sono altri esempi di offesa. I cori contro chi appartiene alle etnie rom e sinti, su questo faremo una campagna negli stadi per far capire che certi termini usati come insulti feriscono l’avversario e la persone in un modo non accettabile. Ma ci sono stati anche cori antisemiti, o contro un diverso orientamento sessuale. Quando Jankto ha fatto coming out, si è parlato di un tema che di solito viene evitato. La Uefa sta lavorando su questi temi con Serie A e Figc, anche il Consiglio d’Europa: sono tutti pezzetti di sforzo collettivo. I casi calano, ma non è finita. Il calcio e lo sport non sono razzisti, ma per la loro forza mediatica devono essere mondi che danno l’esempio".

È la base che prende il cattivo esempio dal vertice, oppure il vertice esprime solo quello che una massa pensa?

"Ci sono forme di razzismo, anche storico, presenti a livello sociale, che risalgono a quando l’Italia aveva meno diversità dal punto di vista demografico. Negli ultimi trent’anni abbiamo avuto un cambio demografico concentrato in un tempo più ristretto rispetto ad altre nazioni. Oggi comunque è molto maggiore la consapevolezza che se affrontato nel modo giusto, nel contrasto al razzismo si possono ottenere risultati incoraggianti".

Che cosa pensa del caso Acerbi-Juan Jesus?

"Concordo col Napoli sul fatto che le campagne non devono essere di facciata, ma le nostre non lo sono. Quei momenti sono un primo passo di accesso, nella realtà i club stanno facendo un lavoro molto serio. Solo nelle ultime settimane Milan, Verona e Lazio hanno varato iniziative importanti. Anche i media dovrebbero raccontare di più gli episodi positivi per aiutare a costruire un clima migliore. Raccontare un fatto lo rende vero, se non se ne sa niente, da fuori si rischia di pensare che sia finto"

Acerbi è stato assolto per assenza di prove di colpevolezza. Giusto così?

"Non possiamo cambiare il modo in cui la giustizia opera, non possiamo condannare o assolvere a seconda della situazione mediatica in cui siamo o del risultato che vogliamo ottenere ma a seconda dei fatti e delle prove come nella giustizia ordinaria. E’ però importante che la giustizia sportiva riesca a raccogliere gli elementi per valutare i fatti con precisione. La sanzione conta se il fatto c’è stato, è importante colpire il comportamento se è accertato. Comunque resto convinto che il lavoro fondamentale sia quello di prevenzione".

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