Zorro, lezioni americane. Hall of Fame tutta azzurra:: "Ce lo siamo meritati"
Si è unito a Bernardi, Gardini, Giani e Papi: "Ma con noi ci sono tutti i compagni. Che bravo Velasco con le ragazze, e sono felicissimo per l’oro del Giangio".
Andrea Zorzi è appena entrato nella Hall of Fame del volley mondiale, a Holyoke nel Massachusetts. Classe ’65, uno dei simboli della Generazione dei Fenomeni, ’Zorro’ ha ricevuto nella culla del volley il giusto riconoscimento mondiale ad una carriera nella quale ha mostrato talenti non solo sportivi.
Zorzi, che emozione è stata? Lei è un finto freddo...
"No no, lo ammetto, è stato molto emozionante. Tra l’altro l’annuncio ufficiale è arrivato da George Mulry, direttore generale della Hall of Fame, e c’era anche Joop Alberda, ct dell’Olanda che ci sconfisse nella finale di Atlanta ’96".
L’hanno fatta premiare dalla vostra nemesi, insomma.
"Più che altro le premiazioni individuali negli sport di squadra vanno sempre a toccare un tema fragile. Nella Hall of fame c’erano già Bernardi, Gardini, Giani, Papi, Julio Velasco e Silvano Prandi. Io penso che chiunque abbia fatto parte del gruppo di quegli anni lo meriterebbe, da Bracci e Cantagalli, da Tofoli a De Giorgi, tutti".
Significa che siete ’Fenomeni’ non solo per gli italiani?
"Sì, quella squadra viene considerata anche dal resto del mondo come un momento speciale, come Cuba femminile che vinse tre Olimpiadi di fila negli anni ’90, purtroppo alcuni di questi campioni di Cuba e anche dell’Iran non erano presenti per problemi di visto. Un’altra cosa importante l’ho capita parlando con canadesi e americani: invidiano a noi europei la possibilità di vedere spesso volley di alto livello, non avendo i campionati come i nostri devono aspettare le nazionali in Vnl o seguirle".
Negli Usa stanno varando un campionato femminile, con due ex ct azzurri come Bonitta e Barbolini.
"Ne abbiamo parlato con Doug Beal, storico ct degli Stati Uniti. Ci saranno due leghe femminili con modalità diverse: negli Usa sono convinti che ci sia un enorme margine di crescita, ci sono investitori importanti. Ma soprattutto hanno un modello diverso al quale fare riferimento".
Ovvero?
"Per loro lo sport deve vendere biglietti e deve generare profitti, quindi ci saranno molti soldi a disposizione nei primi anni, ma poi il progetto dovrà iniziare a fruttare. Esattamente come succede in molti sport in Italia con i club nelle mani dei fondi di investimento".
Lo sport americano ha basi e criteri diversi da quello europeo, basta guardare alla Nba.
"Ho capito parlando proprio con Alberda e con Jeff Stork, alzatore della nazionale Usa con cui ho giocato a Parma e a Milano, che c’è proprio una visione diversa. In Europa pensiamo che lo spettacolo dipenda esclusivamente dal livello tecnico. Negli Usa invece ritengono che l’equilibrio tra le squadra e l’imprevedibilità del risultato siano fondamentali. Per esempio, i tantissimi errori in battuta nel nostro campionato creano pause, interruzioni frequenti e rendono più difficile la partecipazione dei tifosi. Cercare di fare meno errori in battuta non pregiudica necessariamente il risultato, e permetto al pubblico di sentirsi più coinvolto".
È il motivo per cui nella Nba squadre che non vincono da decenni hanno i palazzetti pieni: pensano allo show.
"Però su questo punto si corre il rischio di pensare che sia solo intrattenimento, e non credo che sia un modello applicabile all’Europa. Per noi cambia tutto, se si vince o si perde. Ma questo porta a un paradosso".
Quale?
"Che il Paese più capitalista del mondo applica modelli apparentemente cooperativi o democratici allo sport: salary cap, draft, tutte soluzioni che partono dall’idea che per difendere il prodotto e renderlo economicamente più interessante bisogna garantire equilibrio e alternanza di squadre vincenti. Mentre in Europa l’approccio ’socialista’ alla fine ha ottenuto campionati da...plutocrazia, in cui vince chi ha più soldi e i tentativi di stabilire un fair play non sono risultati molto efficaci".
Parliamo delle Olimpiadi. Si aspettava che Velasco riuscisse nell’impresa d’oro con le ragazze?
"No, non me l’aspettavo. È stato molto coraggioso, ha dimostrato una enorme intelligenza, e mi è piaciuto molto che abbia evidenziato anche dopo i Giochi che la squadra era già forte. Certo lui ci ha messo molto del suo nel semplificare senza banalizzare, e ha un carisma che a volte supera anche i suoi desideri, certe sue frasi diventano mantra mediatici. Anche se lui è stato il primo a spiegare di non aver inventato, per esempio, il ’qui e ora’. Ma la cosa che mi è piaciuta di più è un’altra".
Quale?
"La Fipav ha fatto la scelta giusta, ma non era scontato che Julio ci mettesse così poco a trovare la strada. E lo ha fatto senza trasformarsi: ha dato messaggi di altri tempi, ma assolutamente applicabili. Ha trovato il punto di contatto con le giocatrici senza pretendere di avere la loro età. Ed è stato chiaro con il gruppo, il fatto che Egonu avesse per esempio una esposizione social diversa non era colpa di nessuno e non era una cosa sulla quale concentrarsi, le ha fatte lavorare sulle cose che dipendevano da loro. Ora la sfida sarà mantenere questo clima per un tempo prolungato".
Il suo amico Giani ha vinto le Olimpiadi, ma con la Francia.
"Considero Andrea un fratellino, ma nel senso dell’età, non del fisico ovviamente. Sono veramente felicissimo per lui, ha realizzato un’impresa non semplice con una squadra fortissima, ma ricca di personaggi speciali. Non dico che abbia fatto un miracolo, ma è stato molto bravo".
Zorzi, lei perché non ha mai fatto l’allenatore?
"Non riuscirei a dedicarmi 24 ore al giorno per sette giorni alla pallavolo, anche se ho ricevuto dalla vita il dono di poter restare vicino al mio ambiente, tra le rubriche per i canali della Lega Volley, le ricerche, altri progetti. Ma non credo che potrei essere un allenatore efficace".
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