2024, l’anno degli addii. Da Riva a Beckenbauer, il pallone piange i grandi
Schillaci ed Eriksson, Schnellinger e Brehme, Neeskens, Menotti e Maschio. In dodici mesi se ne sono andate tante leggende del pallone mondiale.
È come in quel verso di una canzone di Fabrizio De André, "io mi dico è stato meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati". Faber è perfetto in questo contesto per altri motivi, quella che state per leggere non è un’elegia funebre, quanto il riconoscimento di un dato di fatto che diventa debito del cuore: l’anno che si sta chiudendo lo ricorderemo anche per i tanti campioni del calcio che ci ha strappato. Ma in realtà, anche senza abbandonarsi alla nostalgia canaglia, il fatto che non siano più su questa terra non ha certo cambiato l’amore, l’affetto, il senso di gratitudine per figure che hanno saputo lasciare un segno nelle nostre anime ben oltre le prodezze sportive. Quella era la parte più facile.
Faber ci sta benissimo perché, pochi giorni dopo Zagallo che fu prima compagno e poi allenatore di Pelé nel Brasile campione del mondo, uno dei primi a lasciarci in questo anno di addii è stato Gigi Riva, era solo il 22 gennaio. ’Rombo di Tuono’ di anni ne aveva 79, a De André lo univa anche il legame con la Sardegna, certo, ma i due erano spiriti affini, parlavano la stessa lingua di sguardi e silenzi.
Ecco, il silenzio che c’è ora dovrebbe essere il posto giusto per ricordarli tutti assieme, volti e non maschere, tic e rughe e increspature delle labbra, e occhi che sembravano sempre guardare oltre quando arrivava un gol, come se la palla avesse sfondato la rete perdendosi all’orizzonte, volando sopra l’oceano delle emozioni.
Gigi Riva era riuscito a diventare un simbolo, come il suo compagno di squadra di quel Cagliari scudettato che ancora oggi è mito, Communardo Niccolai, scomparso in luglio: finalmente nessuno gli potrà più rompere le scatole con la storia degli autogol.
Prima di Riva era andato avanti anche Franz Beckenbauer, un altro che aveva vinto da giocatore e da ct, eppure la sua foto simbolo è un braccio fasciato tipico di chi non si arrende, nella partita più bella di tutti i tempi, ItaliaGermania4a3 tutto attaccato. Il Kaiser ha anticipato di qualche mese l’ultima spaccata di Karl Heinz Schnellinger, che era con lui in campo in quella partita e segnò anche il momentaneo 3-3 allungandosi come una ballerina classica. Un mondiale l’ha vinto Luis Cesar Menotti, quello del 1978 con l’Argentina dei generali di cui era ct e dalla quale aveva lasciato a casa un giovanissimo Maradona: se ne è andato una sera di maggio.
Pochi giorni dopo Beckenbauer, all’inizio dell’anno, invece era toccato a Kurt Hamrin, svedese, chiamato ’l’uccellino’, capace di lasciare un segno con la maglia della Fiorentina e del Milan. Febbraio ha staccato dal calendario la foto di Andy Brehme, idolo interista decisivo nella finale di Italia ’90 per il mondiale dei tedeschi. A marzo un malore è stato fatale a Joe Barone, anima societaria della fiorentina italo-americana.
Era già fine agosto invece quando la malattia si è presa Sven-Goran Eriksson, elegante nel momento dell’addio come lo era stato nel suo lungo percorso calcistico che lo ha portato a fare la doppietta campionato-coppa in tre paesi diversi, Svezia, Portogallo e Italia con la Lazio. Negli stessi giorni anche l’ultimo ’angelo dalla faccia sporca’, Humberto Maschio, che aveva composto il trio delle meraviglie con Sivori e Angelillo e poi in Italia aveva giocato tra Bologna, Atalanta, Inter e Fiorentina e persino in nazionale, spiccò l’ultimo volo a 91 anni.
Come lui, aveva conosciuto la gioia dopo la fatica di emigrare anche un altro simbolo del calcio azzurro, Salvatore ’Totò’ Schillaci: i suoi occhi nelle ’notti magiche’ restano l’immagine più vera dell’incredulità di un paese di fronte ai miracoli sul campo di questo figlio del sud e poi alla delusione per il mondiale di Italia ’90. Si è spento in settembre, qualche settimana prima di Johann Neeskens, a sua volta bandiera di un’incompiuta come l’Olanda degli anni settanta, lui ancora di più perché nella finale mondiale del 1974 contro i tedeschi segnò un rigore inutile come un’illusione. Erano veri invece e fruttarono una mitica Coppa dei Campioni alla Steaua Bucarest i quatto rigori che parò Helmut Duckadam, che ci ha lasciato in dicembre.
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