Eriksson, la partita più difficile. Il tecnico gentiluomo nel dramma: "Ho il cancro, lotterò fino all’ultimo»
di Paolo Franci Vestito di bianco. Completamente. Giacca, pantaloni, camicia e una valigetta di quelle tutta spigoli che andavano negli...
Vestito di bianco. Completamente. Giacca, pantaloni, camicia e una valigetta di quelle tutta spigoli che andavano negli anni ’80.Una ’ventiquattrore’. E’ il luglio 1984, Sven Goran Eriksson da poco è diventato allenatore della Roma di Dino Viola. Eredità pesante perchè la squadra di Liedholm scudettata un mese prima aveva vissuto il dramma della finale di CoppaCampioni persa all’Olimpico col Liverpool. ’Svennis’ così lo chiameremo poi affettuosamente in Italia, si presenta alla squadra allo stadio Tre Fontane. Parla inglese, ma lo capiscono in pochi. Quasi nessuno. L’interprete traduce e lui ordina degli strani esercizi con la palla a campo aperto tre contro tre: "three against three".
E’ la Roma di Pruzzo, Conti, Giannini, di un mercato al ribasso che ha appena salutato capitan Di Bartolomei, passato al Milan. Svennis spiega, i giocatori sbuffano, ridacchiano, si danno di gomito per quel look "da infermiere" e le strane richieste in allenamento: "Ma chi lo capisce a questo", sbuffa qualcuno con i baffi e il formidabile fiuto del gol. Poche settimane dopo non rideranno più e lo seguiranno fino in capo al mondo, pur con una prima stagione deludente ma protagonisti - l’anno dopo e con una squadra mediocre - di una rimonta che non fece rima con scudetto per una partita pazzesca, incredibile, chiacchierata, nel giorno in cui si doveva festeggiare all’Olimpico il ’quasi titolo’ : Roma-Lecce, persa con i pugliesi già retrocessi.
Da lì si beccò l’odioso nomignolo di ’magnifico perdente’. Mai soprannome fu più sbagliato. Lanciò lui Baggio alla Fiorentina, lo fece decollare. E lo capì prima degli altri Sergio Cragnotti che a lui affiderà la Lazio dei fenomeni e dei trionfi di fine millennio. Perchè quel che ha vinto qui da noi, scudetto, Coppa delle Coppe e 4 coppe Italia, due supercoppe italiane e una Uefa, è storia. Dirà, poi: "Ricorderò sempre lo scudetto con la Lazio. Vincere in Italia se non sei Juve, Milan o Inter non è facile". Già, per niente. Ora, Svennis - 76 anni il prossimo 5 febbraio - gioca una partita impari. Un po’ come gli è capitato sulla panchina della Nazionale inglese, dove vincere pare sia l’ultima cosa che ti possa succedere, da quel magico 1966 a oggi: "Ho il cancro, mi resta nel migliore dei casi un anno o più, nel peggiore anche meno". Elegante, asciutto, leggero con le parole anche in un momento di grande disperazione, Svennis ha spiegato come s’è manifestato l’avversario più infame: "Sono collassato mentre facevo una corsa di 5 chilometri, dopo un consulto ho scoperto di avere avuto in ictus e che avevo già un tumore. Non so da quanto, forse un mese, forse un anno". Lui, abituato per mestiere a leggere le situazioni un attimo prima che accadano, non aveva avuto nessun sentore. Poi quei sintomi e dopo aver lasciato improvvisamente il lavoro quasi un anno fa - nel 2019 aveva guidato le Filippine - il sentore che potesse star male lo avevano avuto in molti: "Tutti avevano capito che non stavo bene, immaginavano fosse cancro ed è proprio così. Cosa farò? Lotterò".
Un gentleman d’altri tempi, Svennis. Aria da lord, pacato, elegante, misurato e o svedese più latino del mondo quando si tratta di donne. Un uomo innamorato dell’amore, dell’innamorarsi e e del mondo femminile in modo traboccante, oltre la riga del campo. E della fedeltà. Quando gli chiesero, anni fa, nel 2017, della tormentata relazione con l’avvocato Nancy Dell’Olio rispose: "Infedele con lei? Mai, perchè perché non eravamo mica sposati... Io ragiono così". La nuova compagna dell’epoca era la modella Yaniseth Alcides e lui ci scherzava su ma non troppo: "Perché non più donne contemporaneamente? Che ci posso fare, mi innamoro facilmente…". Ora, lo attende la sfida più difficile. E allora, in bocca al lupo Svennis.
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