Franco Baresi: “In sedia a rotelle per un virus, mi sono ripreso e ho vinto”
Lo storico capitano del Milan: “Il calcio mi ha insegnato a cadere e rialzarmi. Senza Berlusconi non sarebbero arrivati tutti quei trionfi indimenticabili”
Milano, 17 novembre 2024 – Più che una filosofia, è uno stile di vita: “Puntare sempre in alto. Se ci credi molti sogni si realizzano”. Vale anche una volta appese al chiodo le scarpe con i tacchetti: “Quando smetti di giocare a pallone impari a farlo in tanti ruoli diversi”. Non a caso Franco Baresi ha intitolato il suo nuovo libro autobiografico Ancora in gioco. Perché l’immarcescibile bandiera del Milan – venti stagioni con la maglia rossonera, sei scudetti vinti, oltre a tre Coppe dei campioni, due intercontinentali, tre Supercoppe europee e quattro italiane – ha ancora voglia di dire la sua. E di farlo da Capitano. “Nella mia carriera mi sono rimesso in gioco tante volte – racconta –, il calcio mi ha insegnato a saper ascoltare e a rialzarsi. I viaggi che ho fatto, a guardare la vita in modo diverso”.
Partiamo dalla prima partita in Serie A. Sono passati cinquant’anni.
“Una grande emozione. Mi trovavo davanti i campioni che prima avevo visto solo sulle figurine. Gianni Rivera era il capitano ed è stato lui ad aiutarmi nel mio esordio. Guardavo come parlava, come si muoveva, ho imparato da lui tutto. Quella era una squadra esperta, di giocatori di grande personalità. Non era mai successo che facesse giocare un calciatore di 18 anni”.
Paura?
“Direi più incoscienza”.
Ha scritto: “I maestri sono fondamentali”. Quali i più importanti?
“Gli allenatori, sicuramente. Mi hanno sempre dato fiducia, sapendo che avrei ricambiato. Un nome su tutti, Liedholm. La mia formazione si è compiuta a 22-23 anni, quando ho capito di essere pronto ad affrontare anche i migliori”.
Anche suo fratello era tra i migliori. A San Siro se lo trovò davanti come avversario.
“Una storia molto singolare, la nostra. Beppe per me è stato sempre di stimolo. Ha esordito in serie A prima di me, era un modello. C’era una sana rivalità, fatta di grande rispetto”.
Silvio Berlusconi, lo ricorda lei stesso, interveniva sul mercato. Il suo giudizio?
“Senza di lui non sarebbero arrivate tutte quelle vittorie. Era attento alla qualità dei giocatori, all’immagine che ognuno di noi doveva tenere. Si devono a lui la scelta di Sacchi prima, di Capello poi. E la continuità che, pur in stagioni diverse, ha saputo preservare”.
Le propose di allenare le giovanili e anche di scendere in campo in politica.
“Era un invito che buttava lì, quando ci incontravamo. Ma sapeva che non avrei accettato. Non era nel mio carattere e infatti non insisteva”.
Più difficile fare il capitano o più l’allenatore?
“L’allenatore è un ruolo che richiede molte competenze, non solo tecniche. Devi essere psicologo, intuire, capire chi hai davanti. Essere capitano è un onore, il punto di arrivo di un lavoro iniziato molto tempo prima”.
Cito dal suo libro: “Il Milan non muore mai”.
“Lo dice la sua storia. Il Milan è spirito, stile, sacrificio. È l’entusiasmo che la gente cerca. Lo scudetto vinto due anni fa ne ha portato di nuovo. La squadra oggi può competere, deve avere fiducia e crederci”.
Fonseca?
“È arrivato con entusiasmo e idee. Bisogna dargli tempo per esprimerle al meglio. Fa un calcio offensivo che è nella sua cultura”.
Il Milan compie 125 anni e 50 sono i suoi.
“Passati in un baleno. La maglia rossonera ha dato un senso e un significato alla mia vita. È gran parte di me”.
La sua più bella vittoria e la sua più cocente sconfitta.
“La vittoria dello scudetto del 1988, alla fine della partita col Napoli. Quanto alle sconfitte, ci sono anche nella carriera dei campioni e vanno accettate. Quando perdi una finale stai male, ma se ci pensi capisci che già essere arrivato lì è un successo”.
Lei insegna a rialzarsi sempre. Dopo il virus che le paralizzò le gambe - era il 1981 - iniziò la sua irresistibile ascesa.
“Dal campo di calcio passai improvvisamente alla sedia a rotelle. Uno choc. Ma in fondo sapevo che mi sarei ripreso. Dopo quella disavventura sono diventato capitano, a 22 anni, campione del mondo e, quando il Milan è tornato in A, ho vinto tutto quello che c’era da vincere”.
Cosa c’è nella sua vita, a parte il calcio?
“La famiglia, gli amici. Mi piace viaggiare. Ma il calcio non mi molla mai. Nel tempo libero guardo tantissime partite, anche in tv. Direi quasi tutte”.
Non male per uno che scrive che il calcio di oggi ha perso magia.
“Scrivo che è più robotico, che ha perso forse un po’ di epicità. L’attaccamento alla maglia non è più quello di un tempo. Il calcio di oggi è molto diverso dal mio, ma riesce sempre a emozionare”.
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