Lazio, Eriksson: "Vi racconto la mia Lazio. Ai tifosi mando un abbraccio e un grazie"
Il tecnico svedese si racconta ai microfoni laziali dopo il suo ritorno nell'ultima di campionato
Roma 9 giugno 2024 - Un giro di campo commovente sotto gli applausi scroscianti dello stadio Olimpico. Al di là del risultato del campo e delle vicissitudini attuali sulla panchina laziale, l'ultima di campionato per i biancocelesti ha significato il ritorno nella Città Eterna per l'ultimo allenatore scudettato con la Lazio: Sven Goran Eriksson. Un abbraccio caldo e avvolgente, come si coccola chi presto potrebbe lasciarci, visto come l'allenatore svedese ha già comunicato della propria malattia. Applausi sinceri da ogni individuo presente allo stadio, come sincere erano le lacrime che solcavano il viso del tecnico scandinavo, un'emozione unica che il campione d'Italia 1999-00 ha provato a raccontare in una lunga intervista ai microfoni di Lazio Style Channel, dove ha ripercorso passo dopo passo la sua permanenza sulla sponda biancoceleste della Capitale.
Eriksson ha cominciato l'intervista partendo dal principio, ovvero il suo primo incrocio con lo stadio Olimpico. "Sono andato lì la prima volta nel 1983-84, era Roma-Benfica, quarto di finale di Coppa Uefa. Mi dicevo che in questa città e in questo stadio sarei voluto stare in futuro. Così ho avuto la fortuna di allenare le due squadre di questa bellissima città, ma è chiaro che con la Lazio è stato incredibile, tre anni e mezzo ed era tutto un sogno anche per me. Non sapevo mi chiamassero perdente di successo. È bello. Penso fosse così perché abbiamo giocato un gran bel calcio molte volte senza fare l’ultimo step per vincere un titolo. Abbiamo vinto lo scudetto, ma forse dovevamo vincere anche un anno prima".
Si è poi parlato di cosa abbia portato sulla panchina della Lazio il tecnico svedese: "Avevo firmato per un’altra società in Inghilterra, ma il giorno dopo mi chiama Cragnotti e mi dice di venire. Gli dissi che avevo già firmato per un’altra società, ma lui ha fatto di tutto per non onorare il contratto e alla fine si è risolto tutto. Sapevo che la Lazio era forte, la sua società anche, così come sapevo che poteva comprare qualche nuovo giocatore".
Il rapporto di Eriksson con Mancini è stata una delle chiavi per il successo della Lazio, ma in una delle più classiche sliding doors del calcio, questo sarebbe potuto cominciare ben prima, sempre a Roma ma in giallorosso, su consiglio di Falcao. "Falcao nell’84 mi consigliò Mancini, è vero al 100%. Mi ha detto il primo giorno di comprare Mancini, che era giovane e giocava nella Sampdoria. Io fino a quel momento non l’avevo mai visto giocare. Mancini era speciale. Un grande giocatore un fantasista elegante ed era un allenatore in campo. Si arrabbiava solo con l’arbitro e i compagni se non facevano il loro lavoro. Quando ho firmato per la Sampdoria c’erano Mancini e Vialli. Prima di iniziare a lavorare a Genova, Mantovani mi ha chiamato dicendomi che doveva vendere Vialli per fare cassa. Così la Sampdoria non poteva più competere con Milan e Juventus. Sono andato lo stesso e abbiamo vinto una coppa, abbiamo giocato un gran bel calcio".
Il tecnico continua a raccontare di Mancini, parlando poi di come abbia portato con sé il talento del Mancio in biancoceleste. "Quando è arrivata la possibilità della Lazio la prima cosa che dico a Mancini è di venire con me, e lui voleva un’altra sfida prima di essere troppo vecchio. Forse era la prima volta in Italia che avevo una squadra che poteva competere da subito per lo Scudetto. E questo è bellissimo. Cragnotti non mi chiedeva di vincere lo Scudetto il primo anno, ma io gli dicevo che se avessimo comprato Mancini, Mihajlovic e Veron avremmo vinto il titolo. Gli ho fatto questa promessa e quando abbiamo vinto lo Scudetto, gli ho ribadito come se avesse comprato il primo anno questi tre giocatori di Scudetti ne avremmo vinti tre. Il Presidente mi disse: ‘Sven, uno è sufficiente’".
Continuando a raccontare il proprio percorso in biancoceleste, Eriksson discute di come si sia ambientato in biancoceleste. "Sono arrivato alla Lazio che aveva tanti grandi giocatori, era un piacere allenarli. Secondo me mancava qualcosa, mancava la grinta per vincere e fare uno spogliatoio con più positività. C’erano giocatori di lunga data e dicevano sempre che fino a Natale saremmo andati bene e dopo niente. Non si può pensare e parlare così. Sono andato da Cragnotti dicendogli che eravamo negativi, serviva alzare la positività. L’ultimo giocatore che abbiamo comprato era Lombardo ed era un’idea di Mancini. Lombardo faceva panchina alla Sampdoria e Mancini mi disse di prenderlo per lo spogliatoio. Lo abbiamo preso per quello. Abbiamo comprato Vieri dall’Atletico Madrid per una somma enorme, credo fosse il calciatore più caro del mondo. Un anno dopo lo abbiamo venduto a più soldi all’Inter. La squadra cominciava ad essere forte. C’era Conceiçao, il secondo anno è venuto Mihajlovic che era particolare".
Il primo titolo però sfumò nonostante la grande qualità della rosa e il tecnico lo ricorda ancora molto bene, sottolineando però come questo aiutò a costruire poco a poco la mentalità vincente. "Lo Scudetto lo abbiamo perso a Firenze, con un pareggio per 1-1. Era una grande delusione, dovemmo aspettare un altro anno. Vincere è bello, è facile il comportamento dopo una vittoria, tutti lo possono fare. Ma pubblicamente, come allenatore, devi mantenere la calma, se cominci a urlare o a piangere non serve a niente. La squadra all’inizio non aveva una mentalità vincente. Abbiamo vinto la prima Coppa Italia, una settimana dopo avevamo la finale di Coppa Uefa contro l’Inter. Ma era una settimana di festa e siamo scesi senza la testa giusta contro i nerazzurri. Abbiamo giocato contro l’Inter di Lippi una partita di Coppa. Conosco Lippi, siamo amici. Lui mi chiese di lasciargliela vincere, perché avevo vinto tutto. Noi avevamo fatto una partita importantissima una settimana prima però da quel momento la Lazio era diventata una squadra vincente. Non ho detto loro cose speciali, ma loro nella partita volevano vincere e basta. Mi ricordo tante cose, specialmente Simeone. Lui si metteva in spogliatoio per concentrarsi, se qualcuno tentava di parlare con lui prima della partita, lui non rispondeva (ride, ndr)".
Uno dei giocatori che maggiormente è cresciuto sotto la guida di Eriksson è senza dubbio il compianto Sinisa Mihajlovic. "Quando sono arrivato alla Sampdoria era un attaccante a sinistra. Ma io non lo vedevo rapido nel dribblare e lo mettevo in difesa a sinistra e a lui si lamentava. Certo aveva un piede sinistro incredibile, cerca di convincerlo di essere un difensore centrale, ma lui non voleva. In una partita avevamo un infortunato e un espulso e l’ho messo centrale. E da lì non si è più mosso. Veniva a darmi un abbraccio dopo tutti i gol segnati e questo perché la società gli ha alzato il salario da 10 a 100 perché stava diventando uno dei migliori centrali al mondo. Diceva agli attaccanti di correre e la palla arrivava".
Tornando a ripercorrere i passi dell'esperienza biancoceleste, Eriksson continua: "È difficile per qualunque squadra vincere sette titoli in tre anni. Non l’avevo mai fatto prima e mai dopo. Quella squadra era così forte, tutti erano campioni e giocavano in Nazionale. Potevano fare casino e imporsi, ma non lo fecero. Io non ho fatto patti con loro ma era come se lo fosse. Accettavano di stare in panchina, accettavano di essere sostituiti, accettavano gli allenamenti. Avevo un dialogo con tutti per capire cosa migliorare e molti volevano discutere. Ma lavoravamo tutti insieme e nella stessa direzione, grazie a loro siamo diventati fortissimi. Lo spogliatoio era meraviglioso, qualche volta succedeva qualcosa ma quasi mai".
Dopo l'esperienza in biancoceleste, Eriksson diventa il primo commissario tecnico straniero ad allenare l’Inghilterra. "Tante volte ci ho ripensato, forse ho fatto male. Per noi svedesi il calcio inglese è sempre in televisione. Uno svedese a cui piace il calcio sa più cose del calcio inglese rispetto a quello svedese. Io sono cresciuto con la Premier League e quando arriva un’offerta come quella della Nazionale inglese era difficile rifiutare".
Parte poi un gioco di rilettura della storia del calcio, che chiede al tecnico che partita vorrebbe rigiocare, se potesse: "A Valencia era molto strano. Pensavo che sarebbe stata una partita difficile, ma noi straperdiamo, non so cosa successe. Era tutto molto strano perché avevamo uno squadrone, ma quando il Valencia cominciava a giocare non c’eravamo proprio. Però, forse, ti dico che quella contro la Fiorentina nel ‘99. Sarebbe stato bello mettere due scudetti in tasca". Il gioco continua chiedendo a Eriksson un'emozione con la Lazio da rivivere. "Senza dubbio - afferma il tecnico - la prima Coppa Italia. La mia Lazio è nata lì, perché la società doveva cominciare a vincere qualcosa. Lì abbiamo vinto e provato una felicità incredibile tutti, società, giocatori e tifosi, per questo che nella partita dopo contro l’Inter non c’eravamo".
Si è ovviamente parlato di derby, era inevitabile per chi ne ha vinti 4 in una sola stagione. "Abbiamo fatto benissimo in quelle partite però penso che Zeman abbia fatto malissimo. In fase offensiva facevano sempre gli stessi movimenti con l’attaccante dietro e uno dei terzini apriva lo spazio per i centrocampisti. Io dicevo ai miei di non muoversi, era sempre così. Zeman lo conosco, è un grande uomo e grande allenatore, ma non cambiava mai nulla, sempre la stessa cosa. Bloccavo i terzini e così recuperavano sempre la palla".
L'intervista volge verso la chiusura ripercorrendo il giro di campo dell'ultima di campionato di questa stagione, l'abbraccio caldo dell'Olimpico al suo ultimo allenatore in tricolore. "Troppo bello, i tifosi dappertutto che cantavano il mio nome. Ho pianto, era troppo bello. La Lazio ha organizzato una cosa fantastica".
C'è stato modo anche del rapporto con la radio di Sven Goran Eriksson, specialmente come ospite di Gianni Elsner. "Sono stato invitato una volta e la Lazio ha vinto. Così anche una seconda volta. Allora mi disse di fare un patto: se noi continuavamo a vincere sarei dovuto andare sempre in radio da lui. Avrei fatto di tutto per vincere (ride, ndr). Penso ne abbiamo vinte 6-7 di fila e sono sempre andato. Alla fine non sapevamo più di cosa parlare, così mi chiede di preparare qualche canzone perché potevamo fare altre cose oltre a parlare della partita. Io non so cantare, però avevo chiamato mia madre perché non mi ricordavo di una canzone svedese di quando avevo 10 anni. Alla fine ho cantato, male, molto male".
L'intervista si conclude con una dedica del tecnico a tutto il popolo biancoceleste e la sua formazione tipo tra tutti i giocatori che ha allenato: "A tutti i tifosi Laziali, un grande abbraccio e grazie per quello che avete fatto per me. Era troppo bello. In bocca al lupo per il futuro e per il prossimo campionato. Una top 11 di fedelissimi? In porta scelgo Bento. Favalli a sinistra e Nela a destra. I centrali? Nesta e Mihajlovic. A centrocampo Veron, Mancini, Gullit e Nedved. In attacco Nilsson e Baggio. Difficile battere questa squadra, anche se molto offensiva”.
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