Pecchia, ricetta alla parmigiana. "I giovani italiani ci sono, l’unica via per fare sport in modo sostenibile»

Parla il tecnico che ha riportato in serie A i ducali: "Le proprietà straniere ormai sono una cosa normale, basta sapersi adeguare. Il calcio si può fare in tanti modi, noi abbiamo la rosa più verde del campionato".

di DORIANO RABOTTI -
12 ottobre 2024
"I giovani italiani ci sono, l’unica via per fare sport in modo sostenibile"

Fabio Pecchia, 51 anni, è arrivato alla terza stagione alla guida del Parma

È uno degli allenatori più interessanti degli ultimi anni, per idee di gioco e per risultati. Il coraggio non gli manca, anche quello delle scelte personali: lasciare la Cremonese subito dopo averla riportata in serie A non fu cosa da poco, riuscire a convincere Parma dopo aver mancato il primo tentativo di promozione è un altro bel risultato. E poi ha riportato i ducali in A. Fabio Pecchia, premiato giovedì a Parma dall’Unione Stampa Sportiva Italiana con le altre eccellenze di una città che nel 2024 ha vinto anche gli scudetti di baseball, football americano e sitting volley femminile, è un giovane allenatore italiano con le idee molto chiare.

Pecchia, si parla molto di arbitraggi: dalla B alla A il salto è anche sotto questo profilo?

"Dal punto di vista tecnico e fisico la differenza c’è, dal punto di vista dell’organizzazione delle rose c’è un grande differenza, noi ci stiamo assestando in un campionato che per quanto riguarda la gestione degli arbitraggi credo sia molto simile alla linea della Serie B".

A Parma avete scelto di fare una squadra che puntasse a fare un gol in più, piuttosto che prenderne uno in meno.

"L’idea al momento di costruire la nostra squadra era quella di fare un calcio propositivo, andando a cercare il gol piuttosto che l’ostruzionismo, sia in casa che fuori. Spesso riusciamo a creare tanto, alcune volte abbiamo subito più del dovuto. Questo è il dna del Parma, anche a Bologna siamo andati vicini alla vittoria in una situazione complicata per noi, con un secondo tempo in inferiorità numerica contro una squadra forte e in un ambiente molto bello che spingeva. Ci siamo difesi con ordine e alla fine avremmo anche avuto due occasioni per trovare la via del gol".

Voi fate un lavoro di scouting preciso, puntando su giocatori fuori dai radar. Seguite il modello dell’Atalanta, forse l’unico sostenibile?

"Il Parma è il Parma, ci sono tante realtà, la visione del club mi è stata molto chiara già dal primo giorno che sono arrivato, e per me questo è il terzo anno. E la visione del club è puntare su giovani di proprietà da costruire, il mio lavoro è quello di migliorare ogni singolo giocatore. Dare un’idea di gioco, vincere le partite ovviamente, ma soprattutto migliorare ogni singolo per dare al club una sostenibilità. Siamo la squadra con la rosa più giovane della Serie A e credo anche tra le più giovani d’Europa".

Ma i giovani italiani ci sono oppure no?

"Per me ci sono, perché in diverse nazionali sotto l’under 21 abbiamo vinto titoli. È chiaro che c’è tutto un percorso che va affrontato e adesso rispetto a qualche anno fa c’è qualche seconda squadra in più che permette ai club di monitorare i suoi ragazzi, tenerli sotto controllo all’interno del club. Questo favorisce la loro crescita e sicuramente andrà a migliorare tutto il panorama calcistico dell’anno".

Parma è il posto ideale per fare crescere i giovani?

"Parma è una città straordinaria per qualità della vita e per il clima che si vive all’interno dello stadio. Io credo che sia un po’ tutto il contorno del club che deve aiutare il miglioramento dei giovani, se un club è costruito per agevolarli, il miglioramento è più facile".

Lei ha visto il mondo, lavorando nello staff tecnico del Real Madrid, del Newcastle, in Giappone. A Parma ha un patron straniero: che cosa possono portare le proprietà esotiche al calcio italiano?

"Non è molto diverso. Quello che ho vissuto mi ha dato una possibilità anche di conoscere tante realtà e di capire che si può fare calcio in tanti modi. Più che la Spagna, io ho visto da vicino il Real Madrid, che è qualcosa di mondiale. Poi la Premier e il Giappone, il calcio è in continua evoluzione e bisogna adeguarsi. Anche gli allenatori devono avere questa capacità, l’apertura di adattarsi alle modalità dei diversi club. Si tratta solo di restare al passo con il momento del mercato".

Qual è la cosa più strana che le è capitata, nel dialogo con un patron americano?

"Di strano non c’è niente, non è questione di stranezza. Bisogna solo aprirsi ad un modo di lavorare che potrebbe essere diverso da quello di un club tradizionale".

Anche in campo ha un gruppo multietnico, un crogiolo di nazionalità. Come si lavora?

"Sono tante culture messe insieme, bisogna trovare una lingua comune che le possa tenere legate e farle esprimere mantenendo ognuno la propria identità".

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