Mourinho: "Dò ragione a chi dice che sono poco umile. Con la Roma vinte una coppa e mezza"

Le parole dello Special One nella prima parte della sua intervista a Federico Buffa Talks

2 ottobre 2023
José Mourinho

José Mourinho

Roma 2 ottobre 2023 - Il tecnico della Roma, José Mourinho, è stato il protagonista del terzo episodio di Federico Buffa Talks, programma di Sky Sport, dove l'avvocato e Federico Ferri intervistano protagonisti del mondo dello sport. Come tutte le altre interviste di questo format, andrà in onda come sempre in due parti: la prima parte è stata ieri sera alle 23, mentre la seconda parte sarà disponibile da martedì 10 ottobre alle 19.30 sempre sulla piattaforma Sky. Ecco le parole dello Special One nella prima parte dell'intervista.

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Da dove partiresti per raccontare la tua storia? “Non partirei. Pensi che sia una storia interessante? La mia storia è la mia vita, l’ho vissuta fino ad oggi e per me non è niente di straordinario. Da fuori avete un’altra percezione, per me è normale”.

Hai iniziato insegnando ai disabili a Setubal. “Ero in difficoltà in quel periodo lì, avevo una laurea in Scienze Motorie e ho scelto di restare nel calcio, nei lavorando con bambini con Sindrome di Down. Non ero all’altezza della dimensione di quel lavoro lì, ma mi ha salvato il rapporto che avevo con i ragazzi, avevano tra i 12-17 anni, io ne avevo 24 e mi guardavano come uno di loro. Sono riuscito a fare calcio per loro e creare con quella squadra un rapporto umano. Non sono io diciamo il genio di quella fase, ma un mio professore universitario che mi diceva che io sarei stato allenatore di giocatori che giocano a calcio. Tornando a quel periodo lì con la scuola di educazione speciale, quella è stata la mia salvezza. Sono stati due anni straordinari per me”.

Cosa ti ha lasciato quel periodo? “Amici, non tutti ma quando torno a Setubal qualcuno trovo. Questo per me è la cosa più importante”.

Cosa ti sei portato dietro da Setubal? “Setubal (ride, ndr). Sono stato un ragazzo veramente fortunato per gli amici e felice per la famiglia. Tutti miei ricordi di Setubal son fantastici. Per me è un periodo di libertà. Abbiamo vissuto in maniera speciale, a Setubal non sono neanche José quando torno, quando torno sono Zé.. Posso avere casa a Londra, a Roma, posso aver girato il mondo ma come famiglia siamo stati fortunati. Setubal è Setubal, non abbiamo la Fontana di Trevi ma abbiamo un’altra fontana che, se bevi dell’acqua da lì, sarai fortunato tutta la vita. E io l’ho bevuta”.

Quando il calcio è entrato dentro casa tua? “Tre ore dopo che sono nato. Mio padre aveva la partita alle 15:00, io sono nato tre ore prima. Alle 10:00 del mattino, mio padre aveva lasciato l’albergo per vedere il suo secondo figlio quindi il calcio è entrato subito dentro di me. Mio padre? Se penso all'uomo che è stato sono orgoglioso di quello che ha fatto come calciatore e come allenatore. Non voglio parlarne perché mi commuoverei troppo”.

Che ricordi hai del calcio in Portogallo? “Magari la gente non capisce, ma se il calcio diventa la nostra vita il calcio non è uno scherzo. Quando è così, tu cresci con questa mentalità, mi ha aiutato a guardare la mia professione in altra maniera”.

Com’eri da calciatore? “Ero più bravo di quello che poteva pensare la gente: in Serie C ero di altissimo livello. Ho scelto di allenare e consapevole che come calciatore avessi fatto il massimo. Il calcio è una passione e mi diverto ancora con il calcio, faccio la mia professione con la maggior serietà possibile”.

Il ritorno in Portogallo? “A Barcellona ho lavorato con Hodgson e van Gaal, quest’ultimo mi ha detto che avrebbe allenato la sua nazionale e mi aveva consigliato di restare o iniziare una carriera da solo. Van Gaal era uno molto educativo, l’esperienza di allenare i migliori giocatori del mondo in quel momento era importante ed per un giovane assistente come me. Ringrazierò sempre van Gaal”.

Hai sempre pensato di poter diventare primo allenatore? “Rimasi a Barcellona con il presidente che mi chiese di aiutare il nuovo tecnico, ma non faceva per me, non mi sentivo bene. Ho fatto il ritiro precampionato con loro, ma non ero felice, lo dissi anche a mia moglie. Avevo un contratto fantastico, una bambina di 3 anni e un bambino di 4-5 mesi, ho avuto bisogno di fissare quello che avrei voluto fare. Alla fine tornammo a casa, moglie e figli in aereo, io sono andato in macchina, che è ancora lì tra l’altro”.

La tua prima avventura in Portogallo? “Ero terzo a gennaio, poi sono andato subito al Porto perché era possibile cambiare subito panchina. Pochi mesi dopo, gioco contro il Leiria per la finale di coppa. È stata una finale drammatica dal punto di vista emotivo, conoscevo troppo di quella squadra lì, non ho nemmeno festeggiato quando abbiamo vinto perché grazie a loro sono arrivato al Porto. Ho portato poi tre di loro con me, il Leiria era la mia gente ed è stata molto dura per me”.

La finale di Supercoppa Europea contro il Milan? “Mentalmente, è stata una partita super importante per noi. Venivamo dalla vittoria in Coppa UEFA con gol di Derlei al 120’, la vinciamo e giochiamo Supercoppa a Montecarlo ad agosto poi la Champions a settembre. Eravamo una squadra di bambini, io compreso. A parte Vitor Baia non avevamo giocatori di esperienza. Non sapevamo cosa avremmo potuto fare. Contro il Milan sembravamo ragazzi persi nella giungla dopo i primi 30’, non ricordo cosa ho detto loro all’intervallo ma alla fine abbiamo parlato nello spogliatoio e invece di essere tristi abbiamo pensato che ci saremmo diverti in Champions con Real Madrid e Marsiglia. E così è stato”.

La vittoria in Champions con il Porto è la tua più grande impresa? “Sono sempre accusato di essere poco umile, devo dare ragione a chi lo dice. Ho fatto tante imprese, ma vincere la Champions League con il Porto è unico. Sette ragazzi un anno prima non avevano nessuna partita in Champions. Ce ne sono anche altre, perché se ho avuto la fortuna di lavorare con grandi squadre, ho avuto anche la difficoltà di lavorare in squadre più modeste. Ho vinto con lo United, poi una coppa e mezza con la Roma. Quella con il Porto è un’impresa che mi ha aperto le porte del mondo”.

Il gol di Costinha al Manchester United? “Avevo in panchina uno specialista sulle punizioni, era Ricardo Fernandes. Noi stavamo dominando contro il Manchester United, ma vedevo solo gente spaventava, ho chiamato Ricardo e gli ho detto che la punizione, se ci fosse stata, l’avrebbe tirata lui. La punizione arriva e tira Benny McCarthy al posto suo, quando vedo Costinha sulla seconda palla e non in barriera mi sono arrabbiato, ma abbiamo segnato. Lì si è aperta la porta per me e sono andato a esultare con i miei giocatori. Qualche giorno dopo c’erano Chelsea e Liverpool, dopo la Champions con il Porto avevo deciso che sarei andato in Inghilterra”.

La vittoria del campionato con il Chelsea? “È stata incredibile perché in Inghilterra tutti hanno potere economico. Al Chelsea c'era Abrahamovic già da due anni e non mancava tanto per vincere, c’era il potenziale per cambiare la cultura e per decidere quali calciatori avere, non è una cosa che accade spesso. Abbiamo costruito una squadra da sogno con due Premier League di fila, abbiamo vinto tre coppe e quando sono andato via la stessa squadra, con qualche investimento in più, ha continuato a fare la storia”.

Come entri nella testa dei giocatori per ottenere il massimo? “Ricordo sempre il mio professore: non sono calciatori ma uomini che giocano a calcio. Devi imparare tutto ciò che puoi su di loro, interagire e avere feedback continui. A livello umano devi riuscire ad andare oltre. Non c’è un segreto per arrivare lì, devi essere te stesso ed essere empatico: essere critico, esigente, aperto e onesto. Il giocatore quando lavora con me mi capisce, così il rapporto diventa ottimo e tu ottieni il massimo da ogni giocatore, penso che non sia un segreto”.

La vittoria a “Stamford Bridge” con l’Inter? “In quella partita eravamo reduci dalla vittoria anche nella gara d'andata. Il Chelsea segna con Kalou e lui festeggia tanto, tanto che dopo la gara viene a scusarsi, gli ho risposto che è il gioco. Quando siamo andati a Londra, qualche giorno prima avevamo perso a Catania, credo contro Sinisa Mihajlovic e avevamo fatto una partita orribile, ma ci ha aiutato per preparare quella sfida con il Chelsea. I ragazzi dell’Inter erano gente psicologicamente forto, era gente preparata. Quando stavamo per giocare contro il Chelsea, ho detto loro che non avevo mai perso lì. Mi sono fatto male per esultare, un dolore (ride, ndr)”.

La vittoria contro la Dynamo Kiev ai gironi? “Se perdiamo siamo fuori, se pareggiamo siamo ancora vivi, ma dobbiamo fare risultato a Barcellona. Ricordo che avevo detto di non disperarsi a fine partita, quello che stavamo facendo dal punto di vista emozionale non era niente, ho detto ai miei che saremmo tornati felici o morti di stanchezza, no morti di rimpianti. Abbiamo rischiato tutto, potevamo accontentarci del pareggio e giocarci tutto a Barcellona, ma l’inerzia era lì e quando c’è gioca una parte importantissima nel calcio. Qualche volta noi allenatori facciamo i fenomeni, ma le cose accadono perché fai in modo che accadono, hai giocatori bravi e di personalità, potevi pressarli al limiti e loro ti rispondevano sempre. Se fossi rimasto altri 2-3 anni con quella squadra, avremmo vinto più di una Champions come dice sempre Materazzi”.

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