Beppe Saronni, una vita sui pedali: "Io e Moser, sfida infinita. Ma ho vinto grazie a lui"

È ancora l’ultimo campione del mondo in carica ad aver trionfato nella Sanremo. Ha scoperto Pogacar: "Ma era facile accorgersi del suo grande talento"

di ANGELO COSTA -
29 novembre 2023
Beppe Saronni e Francesco Moser al Giro 1984 a Lucca

Beppe Saronni e Francesco Moser al Giro 1984 a Lucca

Roma, 30 novembre 2023 – “Stiamo vedendo belle corse, questo gruppo di giovani fa divertire il pubblico". A un campione di precocità come Beppe Saronni non poteva non piacere questo ciclismo dove i ventenni dettano subito legge. Come Pogacar, lanciato nell’élite proprio da lui, anche l’ex iridato da corridore non ha perso tempo: numeri alla mano, prima dei 24 anni ha vinto il doppio dello sloveno e molto più di Merckx, e a 25 già contava due Giri d’Italia (il primo a 21 anni e 8 mesi), un Mondiale, una Sanremo e un Lombardia, il meglio della sua carriera.

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A 66 anni Saronni, che il 3 dicembre a Bologna sarà uno dei relatori della Convention Campus Bike a Fico Eataly (ma l’evento inizia il 2), è un grande ex che non cerca la ribalta, ma inevitabilmente ci finisce: per ciò che è stato, per ciò che è ancora (ultimo iridato a vincere la Sanremo, 40 anni fa esatti) e per ciò che dice, perché non è mai scontato.

Saronni, cosa le piace del ciclismo di oggi?

"La freschezza di molti protagonisti. Ho sempre pensato che talento e qualità li vedi soprattutto da giovani. Io, che sono diventato pro a 19 anni battendomi per cambiare le regole, un po’ mi identifico in loro".

Che ciclismo era il suo?

"Totalmente diverso. C’era una reverenza verso i migliori perfino esagerata, ai vari Merckx e De Vlaeminck veniva automatico dar del lei. Quando al debutto ho battuto nettamente Gimondi agli indoor in pista al Palazzone di San Siro, andai da lui a scusarmi".

Era uno sport più romantico.

"Non c’era la tecnologia di oggi, ci si fidava di sensazioni ed esperienza. E il rapporto umano era più profondo: ci si trovava tutti in una camera a studiare tattiche e percorsi, si passavano le serate a scherzare nella hall con le altre squadre, capitava di farsi amico anche l’avversario".

Lei se n’è fatto uno importante…

(Ride) "Con Moser si cominciava a discutere al traguardo e si continuava in albergo".

Perché ancora oggi fate notizia quando litigate?

"La gente capisce che è una rivalità vera. Siamo due caratteri diversi, per un po’ andiamo d’accordo poi la tregua finisce. Non c’è nulla di inventato, oggi come allora".

Cosa vi divide adesso?

"Ci sono aspetti di corsa del nostro periodo conosciuti e riconosciuti, soprattutto da chi li ha vissuti: andrebbero raccontati con la giusta ironia, ma Francesco non ci sente".

Moser l’italiano più vincente, poi c’è lei: lo dicono le statistiche.

"Se per trent’anni si ripete questa versione, la gente finisce per crederci. Ma non è così: tolti circuiti e esibizioni, il plurivittorioso è Cipollini, poi ci sono io e dopo viene Moser".

E’ vero che le avevano proposto il record dell’ora?

"Confermo: la Enervit cercava un atleta per l’impresa. Lo chiesero a me e ad altri, io non ero interessato. Francesco è stato bravo ad accettare, poi grazie a quel progetto basato su scienza e tecnologia ha trovato una seconda giovinezza: lo dico senza invidia, è la realtà, anche se lui si arrabbia nel sentirla".

Delle sue 24 tappe vinte al Giro, lei ricorda la Cuneo-Pinerolo dell’82.

"Intanto perché ho battuto Hinault. Poi perché lì ho capito di star bene ed è iniziato il mio periodo d’oro: dal giro di Svizzera in poi, in meno di un anno ho vinto Mondiale, Lombardia, Sanremo e Giro".

Rimpiange di essersi preso tutto subito?

"I rimpianti sono altri. Il secondo posto alla Liegi, quando per pochi metri non ho ripreso Rooks, poi vincitore. L’aver corso soltanto un Tour, dove avrei potuto conquistare più tappe: a quei tempi era il contrario di oggi, gli sponsor italiani preferivano vincere in patria. Ma soprattutto rimpiango di aver trascurato la bronchite presa quando vinsi il Giro: da quel momento, per due anni, non sono più stato al top".

Da manager ha scoperto Pogacar…

"Non era difficile accorgersi di un tale prodigio. Me lo segnalò un mio ex corridore, Hauptmann: lo vidi vincere col sorriso da juniores, capii subito che aveva una marcia in più. Ma il fenomeno Tadej è solo la punta di un iceberg, la Slovenia ha fra le priorità l’educazione sportiva, che inizia dalla scuola: accanto ai campioni, crea generazioni sane".

Il ciclismo italiano, invece, è al buio. Lei ha guidato l’ultima nostra squadra World Tour: farne nascere una è la soluzione per riaccendere la luce? "No. Chi lo sostiene deve anche spiegarmi quali corridori italiani ci metterebbe dentro. Il ciclismo è diventato uno sport difficile: è faticoso per giovani che hanno tutto, è costoso per attrezzature e spostamenti, è pericoloso nelle strade dove ci si deve allenare. Inutile prendersela con la federazione attuale, paghiamo dieci anni in cui non si è seminato e la colpa l’abbiamo tutti. Non manca solo la qualità, ma anche la quantità: gli atleti sono sempre meno, bisogna aver fortuna perché qualcuno emerga. Chi ha idee e mezzi, deve mettersi all’opera domattina se vuole vedere i frutti fra sette-otto anni: purtroppo di gente pronta a partire non ne vedo".

Saronni, la strada del successo è fatta di tante persone: più di tutti, chi è stato importante per lei?

"Ne cito due. Uno è Ernesto Colnago: un punto di riferimento fondamentale, un grande maestro. L’altro è chi mi ha aiutato a tirar fuori forza e volontà per arrivare a certi risultati: sì, proprio lui, il Moserone".

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