"Così sorpasso la fibrosi"
Somaschini combatte il morbo guidando auto da rally .
di Giuliana Lorenzo
A sei anni, Rachele Somaschini sapeva già guidare una macchina. Del resto è sempre stata più matura dei coetanei: inevitabile quando convivi con la fibrosi cistica. Oggi, è una pilota di rally affermata che tramite la sua esperienza e con un libro ("Correre per un respiro") prova a porre l’accento sulla ricerca (in quanto testimonial della Fondazione Ricerca Fibrosi Cistica – ETS) condividendo il suo percorso, sempre con sorriso e voglia di vivere. Dinamica, energica, non si ferma mai, non ama non avere il controllo delle cose, come quando si trova sulle montagne russe, perfetta metafora della sua malattia.
Com’è nata l’idea del libro?
"Non è la prima volta che tento di farlo. Ci pensavo da tempo, volevo cercare di portare alla luce certe tematiche, cosa che faccio sui social ma volevo dare più importanza alle parole che si dicono. Il libro è diverso: ero spaventata, visto che ho scritto una biografia a 29 anni. Alla fine, è venuto un bel lavoro. L’ho voluto affidare a una persona che conosco bene e da tempo: un’altra Rachele che lavorava in Fondazione. È una delle prime persone, che quando avevo 16 anni, ha raccontato la mia storia. Era uscita questa dell’intervista e tutti eravamo rimasti colpiti per il tatto e il modo in cui riuscì a toccare determinati argomenti, senza cadere nel pietismo. Ha dato voce ai miei sentimenti".
Parla del percorso fatto in questi anni, com’è mutato il rapporto con la malattia?
"Ho avuto una famiglia che si è comportata in maniera esemplare perché non mi ha mai fatto pesare che io fossi malata. Mi hanno detto che ogni mattina e sera, per stare bene, dovevo fare queste terapie o andare in ospedale per cure. Credevo che tutti i bambini avessero questa routine. Crescendo, alle medie, ho sentito parlare di fibrosi cistica perché si studiava tra le malattie ereditarie: si diceva che chi ne soffre non avrebbe raggiunto l’età adulta: è stato un trauma. I libri di testo non erano aggiornati ed era la realtà delle cose. Adesso, con la ricerca, le prospettive sono cambiate. Ne ho parlato poi con mia madre che è riuscita a spiegarmi le cose. Ho preso consapevolezza e ho iniziato a capire. Ho avuto dei momenti di rifiuto, durati poco. Ho capito che non dovevo fare tutto quel che facevano i miei coetanei ma che dovevo essere più responsabile. Poi, mi sono raccontata nell’intervista a 16 anni, dopo essere stata chiamata per una campagna del 5x1000 per la fondazione. È utile far capire che piangersi addosso non serve, tanto vale vivere con quello che si può fare".
Si è mai sentita diversa?
"Ho avuto esperienze che mi hanno fatto capire i miei limiti. Ad esempio, mi sono iscritta a una maratona: avevo deciso che dovevo riuscire a fare tutto. Mi hanno portato via in ambulanza. In generale, diversa no. Alcune volte quando ho avuto tosse forte la gente mi è stata lontana pensando fosse contagiosa e nel mondo motori sono stata accusata di fare teatrino e di lucrare sulla situazione".
I motori cosa rappresentano?
"Papà correva quando ero piccola, andavo a vederlo. Mi ha trasmesso questa passione, ma non forzatamente, ho visto quanto impegno metteva. Quando sono in macchina la malattia non esiste, sono contenta, mi concentro su quello che faccio e cerco di non pensarci. Non sempre ci riesco, ma spesso la fibrosi cistica rimane in hotel".
Come sta andando l’anno? C’è stato il campionato europeo…
"Sì, è stato un sogno, da anni cercavo di trovare budget. Quest’anno però ho avuto un calo funzionale e sono stata costretta a fermarmi per curarmi. Sono stata in ospedale e ora devo ritornare in forma. Non ci voleva, però questa è la malattia, ti rende più umana e ti fa capire quali sono limiti. L’anno è uno dei più impegnativi di sempre".
Come si vive da donna in un ambiente molto maschile?
"Ci ho fatto il callo, sono quasi sempre l’unica donna, ma corriamo tutti contro lo stesso avversario, il tempo. Battutine e gap culturale ci sono. Secondo me miglioreremo sempre di più: sarebbe bello non pensare per stereotipi".
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