Gilmore La Nba sbarca in via San Felice

L’Artiglio arriva in Fortitudo nel 1988. Ha vinto nella Aba con i Kentucky Colonels ed è l’unico che possa guardare negli occhi Jabbar

di ALESSANDRO GALLO -
18 febbraio 2024
Gilmore La Nba sbarca in via San Felice

Gilmore La Nba sbarca in via San Felice

Capire cosa abbia significato Artis Gilmore a Bologna non è facile. Almeno per i giovani che sono abituati a entrare e uscire da piattaforme e televisioni satellitari, che sfornano il fantastico mondo della Nba in tutte le salse. C’è stato un tempo, almeno fino agli anni Ottanta, nel quale la Nba, per gli appassionati di casa nostra, era qualcosa di lontano. Che si poteva trovare sulle riviste patinate – su tutti i Giganti del Basket – e nelle prime telecronache di un genio della comunicazione che risponde al nome di Dan Peterson.

Ecco perché lo sbarco dell’Artiglio a Bologna, nell’estate del 1988, cambia per sempre Basket City. Nell’estate del 1988 – a Bologna il derby non perde mai di interesse –, l’avvocato Porelli ingaggia Micheal Ray Sugar Richardson. E la Fortitudo di Germano Gambini risponde con un gigante vicino ai quarant’anni.

E’ stagionato, certo, ma per chi è cresciuto leggendo solo riviste patinate e al massimo qualche filmato Nba, Artis è l’unico che, vista l’altezza, può guardare negli occhi Kareem Abdul Jabbar. Di più: con le sue lunghe leve e l’uncino, copiato per certi versi da Jabbar, Gilmore è il solo che possa giocare alla pari con Kareem.

Poi, a dispetto dell’altezza e della stazza – 218 centimetri per 108 chili, si dice, ma sono almeno 10 in più –, magari non raccoglie quello che avrebbe meritato. Vince un titolo con i Kentucky Colonels nel 1975. Negli Stati Uniti, la Nba non è ancora quella attuale e deve fare i conti con la concorrenza interna di un altro campionato: la Aba, che è appunto il campionato che Artis porta a casa. E il 3 febbraio 1974 stabilisce un primato per la Aba. I suoi Kentucky Colonels affrontano i New York Nets, dove gioca Doctor J, al secolo Julius Erving. In quella gara l’Artiglio, in 42 minuti, raccoglie 40 rimbalzi, 34 dei quali difensivi. E’ un record. E’ alto, ha un tiro morbido e movenze feline. Il difetto? Non è agonisticamente cattivo e questo gli vale l’etichetta di ‘gentle giant’, gigante gentile.

Al di là dei modi, Gilmore non è nemmeno fortunato. Gioca nelle migliori squadre Nba, una volta chiusa l’esperienza Aba, ma ci arriva sempre nel momento sbagliato. Gioca a Chicago, con la maglia dei Bulls. Ma sbarca nell’Illinois (1976-1982) quando Michael Jordan è ancora una giovane speranza di North Carolina. Approda nelle fila dei San Antonio Spurs (1982-1987) quando Gregg Popovich non ha ancora deciso di intraprendere la carriera da allenatore. Arriva anche a Boston nel 1988, ma è il periodo nel quale Larry Bird e compagni fanno fatica. Così, a quasi quarant’anni, il gigante gentile dal morbido tiro mancino, lascia gli States per Bologna. Lo aspettano la Fortitudo, Sugar Richardson e la Virtus e il derby.

Al primo allenamento, con la squadra che pende dalle sue labbra, l’Artiglio chiede di parlare. E lui, il Mito, si mostra umano. E ringrazia tutti per la pazienza che i compagni hanno avuto con lui, sbarcato da poco e con pochi allenamenti nelle gambe. La stagione 1988/89 vede sulla panchina Fortitudo – che qualche mese prima ha vissuto l’entusiasmo dei derby del sorpasso – sempre Mauro Di Vincenzo. Il dottore delle panchine vorrebbe correre a cento all’ora. Con Gilmore, vista la mole e l’età, non è facile. Anche perché portarsi dietro 218 centimetri non è semplicissimo.

Gli inizi non sono dei migliori, il Gigante è quasi sempre un passo indietro. Ma la classe non è acqua, così come la stazza. Le sue smisurate diventano una sorta di ombrello per oscurare gli attaccanti avversari. E quando Jack Zatti impara a servirlo sotto canestro – "quando prendo posizione non mi sposta nessuno" – arrivano, immancabili, i due punti.

Discute di teologia, è di fede battista, con don Corrado. Si integra perfettamente nel mondo di via San Felice. Al punto che decide anche di acquistare un cane, un chow chow, come capitan Zatti. George Bucci lo spedisce a Siena: lo accompagna il fido Giarletti per acquistare il quattro zampe. E quando lascia la compagnia, a fine anno, lo fa con le lacrime agli occhi.

Diventa protagonista, suo malgrado, di una grande beffa, al Playground dei Giardini Margherita qualche anno più tardi. La squadra di Paolo Zanardi, gli All American, prima del torneo, l’11 giugno 1997, annuncia il ritorno a Bologna del gigante gentile. I media impazziscono poi, però, ai Giardini Margherita Gilmore non si vede. "Il figlio è stato rimandato al liceo e lui ha deciso di rimanere negli States per aiutarlo a studiare", diranno poi i dirigenti di All American, nascondendo il tranello. Solo nelle ultime stagioni è venuta fuori la verità: Gilmore non è nemmeno stato contattato e non sa nulla del Playground dei Giardini Margherita. Solo che negli anni Novanta, la rete, non è ancora globale e si possono architettare scherzi del genere.

Un gancio, suo malgrado, di Artis, l’uomo che ha portato la Nba in via San Felice.

(39. continua)

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