Pilutti L’idolo della Fossa veste il Nettuno
Dopo la conquista dello storico scudetto del 2000 da parte della Fortitudo è lui a ’colorare’ di biancoblù la statua del dio del mare

Dopo la conquista dello storico scudetto del 2000 da parte della Fortitudo è lui a ’colorare’ di biancoblù la statua del dio del mare
Icona della Fortitudo, se ce n’è una. E’ lui che, nellla notte del 3 giugno del 2000, viene imbragato e sistemato in una sorta di braccio meccanico per mettere il vessillo e vestire il dio Nettuno con una canotta biancoblù. E sistemare la sagoma (di cartone) di un coniglio bianconero sul tridente del dio del mare. Lui è Claudio Pilutti, classe 1968, due metri d’altezza e, non guasta, una simpatia unica.
Giocatore ovunque – Tanjevic e non solo lui, vorrebbe trasformarlo in un playmaker, perché Pilu vede il gioco e sa mettersi al servizio del prossimo –, compagno di squadra apprezzato e stimato. Fortitudino (vedremo come e perché nel corso del racconto) per sempre. Pilu in realtà si porta dietro una contraddizione. Perché cresce nelle giovanili di Mestre, si afferma a Trieste (dove conosce Tanjevic) e tutti si è portati a pensare che Pilu sia veneto, friulano, forse giuliano.
In realtà viene alla luce il 28 aprile 1968 a Castellamonte, che sarebbe in provincia di Torino. E’ piemontese, quindi. E non ha paura di nessuno. In maglia Mestre, la prima azione lo vede schiacciare in faccia a Bryant. Siamo negli anni Ottanta, di Kobe ancora parlano in pochi, di Joe, detto Jellybean, sono innamorati tutti in Italia.
Perché il papà di Joe segna valanghe di punti. E Pilu, che un giorno diventerà uno specialista della difesa – forse uno dei migliori in Italia – non ci pensa due volte. E per fare capire chi è, gli schiaccia in faccia.
Trieste fino a quando, nell’estate del 1994, lo chiama Maurizio Albertini. Gli propone una chiacchierata a Bologna per parlare di Fortitudo e di futuro. Pilu ci mette un paio di minuti a decidere. Fortitudo per sempre. In biancoblù dal 1994 al 1997. Fa coppia fissa, a carte – i telefonini ci sono già, ma la rete e i social sono ancora di là da venire – con Blasi. Lui e Micio sono il White Power. Dall’altra parte del tavolo, il Black Power. Dan Gay e Marcelo Damiao. E pazienza se Pilu e Dan si dimenticano quello che oggi viene chiamato il politicamente corretto.
Il loro linguaggio è particolarmente colorito e forse poco rispettoso. Ma in mezzo alle risate (sincere) si capisce lontano un miglio che quei ragazzi là si vogliono davvero bene.
Che sono un po’ come i tre moschettieri, tutti per uno e uno per tutti. Uno spasso, Pilu. Come quando ricostruisce pezzi del passato: le imitazioni del professor Nikolic e dello scugnizzo Esposito (due personaggi apparentemente agli antipodi, in realtà due giganti del basket) sono da premio Oscar.
Ma Pilu è da Oscar quando è in campo. A Trencin, in Coppa Korac, chiude con 34 punti: 8/8 da due, 6/6 da tre. La gara di Pilu in Slovacchia passa alla storia come la prova perfetta. Il problema è che in quella trasferta, al seguito della Fortitudo, ci sono solo l’addetto stampa Fabrizio Pungetti e il fido Davide Collina. Non ci sono immagini di repertorio, non ci sono statistiche ufficiali: solo il racconto, via etere, di Pungetti e Collina che viene preso per buono da tutti i quotidiani delle Due Torri. Da allora, vero o verosimile, Trencin è sinonimo della gara perfetta.
Bodiroga prima di Dejan – "Anche se lui il play l’ha fatto un po’ meglio", se la ride ancora Pilu –, se ne va a Cantù nel 1997. Lascia la Fortitudo per una stagione in Brianza. Fa in tempo a tornare, nel 1998, per altre quattro stagioni con l’Aquila. L’apoteosi, appunto, lo scudetto del 2000. Il coro della Fossa "Claudio Pilutti con te ci vogliamo ubriacar" e l’acconciatura, singolare, per scommessa, dopo lo scudetto. "A tal deg", si legge sulla testa di Pilu, felice per aver coronato un sogno. Difende, segna, gioca a carte e vince.
L’uomo per le missioni più dure è sempre lui, Claudio Pilutti. Come quando, nei derby, deve provare a frenare Sasha Danilovic.
Nel 2002 lascia la Fortitudo, ma non Bologna. Passa al piano di sotto, Progresso Castel Maggiore. E’ la squadra di Giampiero Ticchi, il Progresso più bello di sempre. Quello che sfiora anche una clamorosa promozione in serie A, mentre la Virtus di Madrigali ha problemi economici. E non pochi. Estate 2003, la Virtus rilevata da Claudio Sabatini, prende casa a Castel Maggiore. E Pilu vecchio cuore Fortitudo che fa? Non se la sente. Ma resta a Bologna. La Virtus 1934 (in panchina Giordano Consolini, tra i dirigenti Paolo Francia e Marco Bonamico, tra i tecnici Marco Sanguettoli, il professor Grandi come preparatore) in B1.
Poi il Gandino, il Castiglione Murri. Con la verve di sempre. E con la sedia a dondolo – qualcuno magari si sarebbe arrabbiato, Pilu che è un maestro di goliardia e sa scherzare anche su se stesso no – che gli regalano i tifosi. Un ginocchio fa le bizze, è costretto a ritirarsi nel 2008. Ma nel basket è sempre un punto di riferimento. Perché dice sempre quello che pensa. Perché è una fonte inesauribile di aneddoti. Pensate che la schiacciata in faccia a Bryant sia l’unico evento?
Fatevi raccontare di quando, in Fortitudo, si materializza, a Casalecchio, un’amichevole con un team di americani. Tra questi anche un certo Earvin Johnson. La canotta di Magic pare ce l’abbia ancora Damiao. Ma l’unico italiano capace di segnare in gancio, sotto lo sguardo di un incredulo Magic, è proprio lui, Pilu da Castellamonte. L’idolo della Fossa. E non solo.
(57. continua)
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