Luigi Serafini: il gigante di Casinalbo che ha segnato la storia della Virtus Bologna
La carriera di Luigi Serafini, detto Gigione, tra successi con la Virtus Bologna e incontri con leggende del basket.
Ha giocato persino ai Pra’ di Cereglio. Impossibile non notarlo, perché lui arriva sulla 500 alla quale ha tolto il sedile anteriore. Si accomoda dietro e la testa spunta ben oltre la capote. Non è un vezzo ma, piuttosto, una necessità. Anche perché Gigione era alto 210 centimetri. Gigione, lo avrete capito, è Luigi Serafini, il gigante di Casinalbo, che ha costruito la sua carriera all’ombra delle Due Torri. Nato nel Modenese, il 17 giugno 1951, Gigione resta in Virtus dal 1968 al 1977 con 229 presenze e 2.821 punti. In questo periodo conquista la Coppa Italia nel 1974, lo storico scudetto del 1976. Diventa anche il capitano ed è uno dei trascinatori.
Ma, in un mondo ormai globalizzato, dove si sa tutto di tutti, fa sorridere – di nostalgia – il modo in cui, il grande Gigi, scopre il mondo dei canestri. Grazie a un’altra icona del mondo dei canestri bianconeri, Nino Calebotta. La storia: siamo nel 1966, Gigi è un ragazzo come tutti gli altri. Finito a lavorare in fabbrica. Di pallone, canestri o polsini – in quegli anni vanno di moda, come oggi accade per i tatuaggi – non sa nulla. E che c’entra Calebotta che aveva vinto tanto con la Virtus negli anni Cinquanta? I guadagni, per quel che riguarda il periodo della ‘palla al cesto’ non esistono. Quando va bene, la presenza in squadra, si materializza, sotto il profilo economico, con un buon posto di lavoro. Magari qualche turno saltato. Al massimo qualche incentivo. Nino fa il rappresentante di medicinali e, quando si presenta al medico di Casinalbo, viene a sapere che c’è un giovane, di 205 centimetri, che lavora da quelle parti.
Calebotta prende appunti, riferisce in Virtus. Gigi viene individuato: viene organizzata un’amichevole. In poco tempo lascia la fabbrica per le Due Torri. Nasce la storia di Gigione che, nel 1972, alle Olimpiadi di Monaco, quelle del massacro, indossa la maglia azzurra e gioca la finale che vale il bronzo contro Cuba. Meneghin gli passa il pallone, il ‘nostro’ schiaccia. E’ il canestro del sorpasso che regalerebbe uno storico bronzo all’Italia.
Purtroppo, l’arbitro sanziona un’infrazione di passi che definire discutibile è un eufemismo. Niente medaglia, per Gigi ci sono, per anni, gli sberleffi dei tifosi avversari.
Eppure Gigi, che ha un carattere mite, è uno tosto. Resiste a tutte le tempeste. E, a sua insaputa, diventa la chiave per portare a Bologna Dan Peterson. In Cile, prima del golpe, Dan è il ct di quella nazionale. Allena, con rispetto parlando, dei ‘nani’: ecco perché l’idea di lavorare con un ragazzone di 210 centimetri lo intriga. E, a proposito di ‘nani’, il soprannome che Charlie Caglieris (177 centimetri) si porta dietro, ha il marchio di fabbrica di Gigione. L’anno migliore forse è quello con Tom McMillen: insieme diventano la versione più moderna delle Due Torri. Gli avversari raddoppiano su Tom, il mancino statunitense scarica a Gigione che segna valanghe di punti. Forse, se Gigi non si fosse fatto male – le cosiddette sliding doors non l’hanno mai premiato – la Virtus avrebbe vinto prima il suo settimo scudetto.
Il titolo arriva lo stesso, Gigi ha coronato un sogno. Anche se non riesce a essere ‘cattivo’ come Dino Meneghin. Gioca a Bologna, Gigione, fino a quando, nel 1977, gli prospettano l’idea di fare un passo indietro. La Virtus ha ingaggiato Villalta, su Renato ci sono tante aspettative e l’ex Duco ha bisogno di giocare. E’ un basket diverso da quello attuale: giocano i primi cinque. Al massimo c’è il sesto uomo, come accade a Varese con Zanatta. Così Gigione fa la valigia destinazione Milano. Olimpia? Macché: a Milano le squadre sono due, va All’Onestà e fa coppia fissa con Chuck Jura. Mancino pure lui. Gigione rivive l’epopea di Tom McMillen. Poi Venezia, dove conosce Spencer Haywood la cui compagna è Iman Mohamed Abdulmajid, la modella somala che poi sposerà David Bowie. In Laguna, poi a Fabriano, dove tiene quasi a battesimo un giovane Alberto Bucci.
Chiude a Firenze, ma torna a Bologna perché questa è casa sua. Lavora, Gigione, sistema parquet – quello perfetto, dell’Arcoveggio, è opera sua –, dà una mano all’Atletico Borgo. Lo si vede in giro, con il suo vocione, l’aria scanzonata e quella innata bontà d’animo che lo rendono il compagno ideale. Profetico, ma non troppo. Scherza sempre, Gigi, quando gli si chiedeva di Dan Peterson. "Un nano con i pantaloni a zampa d’elefante. Pensavo che con noi sarebbe durato solo un paio di settimane. E infatti…".
Aveva la capacità di ridere di se stesso, Gigi, perché come tutti i grandi (non solo di statura, ma anche di umanità) sapeva prendersi non troppo sul serio. Però, prima di lasciarci, il 23 agosto 2020, è veramente profetico. "Spero che questa Virtus – disse pensando a Teodosic & Co. – faccia come la mia. Riporti lo scudetto sul petto della V nera dopo vent’anni". Accontentato. Ma com’è difficile, da quattro anni a questa parte, fare a meno della verve di Gigione. Gigante di statura e di valori morali.
(53. continua)
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