Brehme, la classe operaia ora è in Paradiso

Inter in lutto per il difensore dai piedi buoni che seppe battere Maradona: dagli assist per lo scudetto dell’89 al rigore del mondiale ’90

di LEO TURRINI
21 febbraio 2024

Brehme, la classe operaia ora è in Paradiso

Quell’8 luglio del 1990, quando l’arbitro assegnò il rigore che poteva decidere la finale mondiale tra Germania e Argentina, beh, sugli spalti dell’Olimpico in molti pensammo che sul dischetto si sarebbe presentato Matthaeus, il leader tedesco dell’Inter. Oppure Voeller, idolo dei romanisti. O ancora Hassler, pupillo degli juventini.

E invece no. A prendersi il pallone che scottava, il pallone della carriera e di una vita, ci andò lui, Andy Brehme, ruvida espressione del calcio teutonico, anima operaia del gruppo di fuoriclasse allenato dal carismatico Franz Beckenbauer. E in un attimo fu chiaro che c’era un senso, nell’episodio solo in apparenza secondario: toccava ad un proletario del pallone far piangere a dirotto l’artista supremo, il mitico Diego Armando Maradona. Perché è vero, talvolta gli estremi si toccano e dalla collisione fra l’Alto e il Basso, tra Poesia e Prosa, scaturiscono racconti di una bellezza indicibile.

Ecco, Andy Brehme, spentosi ieri a 63 anni, ha rappresentato l’essenza ultima del calcio, probabilmente senza nemmeno averne consapevolezza: non devi essere necessariamente un Fenomeno per essere determinante, decisivo, indimenticabile.

Quella notte dell’8 luglio, nell’istante sublime e irripetibile della carriera, Brehme non sbagliò. Non ebbe paura dagli undici metri, non si tirò indietro come i compagni più famosi di lui. Andò sul dischetto, fece gol e magari si illuse che la vita potesse essere sempre così, così bella.

Non è andata in quel modo. Distratte e disordinate cronache avrebbero poi sussurrato di problemi finanziari, di guai di salute, di dipendenze sgradevoli. L’operaio del football non ha retto i ritmi della catena di montaggio della quotidianità.

Ma in mezzo alla tristezza per una fine prematura, forte resiste il ricordo del terzino (allora si diceva così) che aveva una faccia da film di Fassbinder e che sembrava sempre appena uscito da una birreria. Brehme arava la fascia, era moderno nella interpretazione del ruolo e possedeva piedi buonissimi: proletario, sì, ma con stile.

In Italia lo avevamo conosciuto prima del Mondiale del 1990. Un paio di anni prima, l’Inter aveva definito con il Bayern l’acquisto di Lothar Matthäus, un giocatore irresistibile. Nell’affare ballava qualche spicciolo e secondo la leggenda fu lo stesso Lothar a suggerire al Trap l’acquisto del tignoso compare. Brehme, appunto. I tifosi nerazzurri all’inizio storsero un po’ il muso, ma presto si innamorarono del soggetto. Andy sapeva sempre cosa fare, raramente commetteva errori gratuiti, aveva un gran motore. Un diesel con il turbo.

Con la Beneamata, nella stagione 1988-89 Brehme conquistò lo scudetto dei record: 58 punti su 68 disponibili (allora la vittoria ne valeva due). Le sue attitudini si specchiavano perfettamente nella filosofia trapattoniana: correre, menare, non dire gatto finché non ce l’hai nel sacco.

Poi ci fu quel rigore Mondiale. Per dimostrare a De Gregori, il cantautore, che aveva torto.

Un giocatore si giudica anche da quel particolare lì.

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