Nadim, storia di coraggio e libertà. Arriva in Italia la calciatrice afghana con specializzazione in chirurgia e nominata “Campione dell’Unesco“

È fuggita dal suo Paese di origine per inseguire un sogno. Oggi è atleta di successo e simbolo dei rifugiati nel mondo

di GIULIO MOLA -
30 gennaio 2024

C’è una storia tanto bella quanto sconvolgente dietro quella maglia rossonera numero 8 indossata da una calciatrice nata in Afghanistan ma naturalizzata danese, arrivata in Italia da pochi giorni dopo aver giocato con club prestigiosi come il Manchester City e il Psg. Una storia che parla di coraggio, riscatto e resilienza, di sofferenze e atrocità, di sogni da inseguire e di ideali da difendere, come è normale che sia per una ragazza di 36 anni cresciuta troppo in fretta e scappata a soli dieci anni dalla sua casa di Herat per sfuggire a violenze e soprusi di ogni genere. Ora è cresciuta quella bambina che giocava con un pallone nel cortile di casa per nascondersi dagli sguardi sempre vigili degli integralisti e di una società che ripudia il calcio, e che considera questo sport come un prodotto per la distrazione di massa e la colonizzazione occidentale. E’ diventata una donna dai molteplici interessi: conosce 11 lingue (danese, inglese, spagnolo, francese, tedesco, persiano, dari, urdu, hindi, arabo e latino) e ha studiato medicina alla Aarhus University.

Nel 2018 per Forbes è stata una delle 20 sportive più influenti visto che oltre al talento espresso sul campo (un centinaio di presenze nella nazionale danese e punto di forza, fra gli altri, di Manchester City e Psg prima di approdare al Milan) si è distinta per il suo impegno nella promozione dell’uguaglianza tra i sessi che le è valso la nomina, nel 2019, come UNESCO Champion for Girls and Women’s Education. Ambasciatrice delle Nazioni Unite, per le ragazze è un’icona e con orgoglio ripete: "Quando sei in quarantena puoi pensare che la tua vita fa schifo, ma puoi anche essere grato di vivere in una società in cui puoi stare a casa e avere ancora cibo e un tetto sulla testa".

La sua parabola l’ha raccontata sul suo sito ed è una ferita che mai si è rimarginata: "Mio padre era un generale dell’esercito afghano, avevo solo 11 anni quando ricevetti la straziante notizia che i talebani l’avevano giustiziato". Lei, sua madre e le quattro sorelle decisero di scappare. "Avevamo programmato di rifugiarci a Londra, dove avevamo alcuni parenti, e con passaporti falsi arrivammo in Italia, via Pakistan. Poi salimmo su un camion, e dopo alcuni giorni di viaggio scoprimmo che l’autobus ci aveva lasciati in Danimarca. Passammo dal vivere nella paura, ascoltando il suono di proiettili e bombe, a un posto in cui ci sentivamo molto al sicuro". Qui, Nadia ha potuto ricominciare a giocare a pallone. Si iscrisse pure al liceo Marseliborg e poi all’Università di Aarhus, studiava e dava gli esami, guadagnava qualche soldo consegnando i giornali. Finché è diventata calciatrice. Gli inizi nel B52 di Aalborg, poi l’ascesa. Nel 2012, con il Fortuna Hjørring, l’attaccante debuttò in Champions League, segnando due gol al Celtic Glasgow. Da rifugiata a campionessa.

E quando la sua carriera sportiva sarà finita, vorrebbe andare a lavorare per Medici Senza Frontiere: "Mi sono laureata in medicina all’università di Aarhus. È stato un motivo d’orgoglio per me e la mia famiglia. Non è stato un percorso facile ma il mio motto è sempre stato ‘volere è potere’. E poi mi piacerebbe aiutare e avere un impatto sulle vite degli altri, anche se in questo momento sono concentrata sul calcio. Poi cercherò di essere la miglior chirurga possibile".

Questa è Nadia, la bambina dalle mille vite diventata donna troppo in fretta ma che, nonostante tutto, non ha smesso di credere in un futuro migliore. "Se si ha il coraggio di sognare, bisogna farlo in grande".

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