Roberto Mancini in azzurro, amore e odio. I Mondiali vissuti solo da spettatore
La mancata qualificazione da ct, la tribuna (e panchina) a Italia ’90 da calciatore. L’abbraccio con Vialli l’immagine più bella
Ancona, 14 agosto 2023 – Azzurro tenebra. Come nel romanzo memorabile di Giovanni Arpino, la storia infinita tra Roberto Mancini e la Nazionale assume definitivamente il senso di una Incompiuta. Quali che siano le motivazioni del congedo, questo è un addio che si specchia in una relazione convulsa, contraddittoria, in bilico perenne tra gioia e amarezza, tra illusione e disincanto, tra lampi d’amore e crisi di rigetto.
Da giocatore, il Mancio marchigiano non è stato inferiore a Baggio o a Totti, addirittura ha vinto due scudetti in realtà da Mission Impossible, giocando con la Sampdoria e la Lazio. Ma l’Azzurro per lui era tenebra: giovanissimo fu convocato dal mitico Bearzot, salvo farsi presto esiliare per indisciplina. In una carriera fulgida, zero minuti giocati ai Mondiali. Che è come dire niente Louvre per Leonardo…
Da allenatore, Roberto Mancini si è riallacciato a quel filo reciso. Non gli bastavano i successi in panchina con l’Inter, con il Manchester City, con i russi dello Zenit San Pietroburgo: lui aveva un debito da saldare, con se stesso e con la cronaca che si fa storia.
Ora, romanzesco e anche crudele sa essere il racconto delle nostre vite. Roberto si precipitò al capezzale della Nazionale nel momento della morte cerebrale del movimento: l’incredibile esclusione dai Mondiali del 2018. Ci voleva il coraggio di un pazzo per offrirsi volontario, in un momento del genere. Cioè ci voleva Mancini, che a conoscerlo anche solo un po’ è il classico idealista che non ha paura di coltivare illusioni.
Il resto è come in una canzone di Mogol e Battisti. Le discese ardite e le risalite. E poi ancora in alto e poi giù il deserto.
Azzurro tenebra, già. I numeri da record: 37 partite consecutive da ct senza perdere, 13 vittorie consecutive. Fino alla sublimazione di Wembley 2021: il titolo europeo conquistato a Londra contro i padroni di casa, con Mattarella in tribuna e un Paese, ustionato dalla ferocia del Covid, che tornò ad abbracciarsi in piazza, senza mascherine, per lui e per i suoi improbabili eroi, da Donnarumma a Belotti, da Chiesa a Barella.
In mezzo, Roberto. Il Mancio che piange avvinghiato a Luca Vialli, in una scena da brivido e da urlo, in una apoteosi di valori sani. L’amicizia. La solidarietà. La vita. Che prende e che dà.
Eh, sì. In questo finale Azzurro Tenebra viene da pensare che forse doveva finire tutto lì. A Wembley. Con Vialli. In un fermo immagine che non ammetteva code, repliche, sequel. Perché la nostra esistenza non è un cinema, mai.
Il seguito è malinconia. L’assurda estromissione da un altro Mondiale, stavolta per mano, come avrebbe cantato Franco Battiato, di "furbi contrabbandieri macedoni". Una umiliazione che il Mancio non meritava e altri ci parleranno di errori, di scelte sbagliate, di incertezze strategiche: e invece era già tutto scritto, era il canovaccio di Azzurro Tenebra, era la riproposizione di un antico incubo.
Roberto Mancini è stato perfetto nella sua imperfezione. L’albo d’oro della Nazionale di calcio segnala appena cinque allenatori, in oltre un secolo, capaci di alzare un trofeo: Vittorio Pozzo, Ferruccio Valcareggi, Enzo Bearzot, Marcello Lippi e, appunto, il Mancio. Ricordiamolo così, adesso che il tempo, questo nostro tempo indecifrabile, ci espone al vento dell’ennesima, certo non ultima, disillusione.
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