Quando Schillaci volò in Giappone e trovò l’America: così Totò divenne l’eroe di due mondi

Il 14 aprile 1994 Schillaci lasciò l'Inter e volò nella terra del Sol Levante: contratto di 5 miliardi di lire, più vari benefit, per 18 mesi. Sarebbe rimasto tre anni, accolto e trattato come un semidio, contribuendo allo sviluppo del calcio giapponese

di LORENZO LONGHI
18 settembre 2024
Totò Schillaci

Totò Schillaci

Roma, 18 settembre 2024 – Una trattativa imprevista, un’avventura imprevedibile. Tanto poterono la fama di un Mondiale leggendario, quattro anni prima, e un calcio lontanissimo che iniziava a costruire il proprio futuro. Cinque miliardi di lire per 18 mesi di contratto, fino al dicembre del 1995: una cifra spropositata per quei tempi, ma tanto spuntarono gli uomini del suo procuratore, Antonio Caliendo, e nella primavera del 1994, trent’anni fa e spiccioli, ormai ai margini dall’Inter a campionato ancora in corso, Totò Schillaci firmò i documenti che lo avrebbero portato – primo calciatore italiano – a giocare nel campionato giapponese. Cinque miliardi di lire più una serie di benefit, tra cui autista, maggiordomo, auto, abitazione e ovviamente interprete, perché Schillaci, in A sostanzialmente considerato un ex, a livello globale era ancora Schillaci, il capocannoniere di Italia 90, il bomber della Juventus. Viaggio aereo fissato per il 14 aprile 1994, partenza – scrisse Marco Ansaldo su La Stampa – “con la valigia di Vuitton, anziché quella di cartone, e con lo spirito d'emigrante che appartiene a tanta plebe del Sud”: non aveva ancora trent’anni, Totò, lo cercavano da un paio almeno e aveva sempre declinato, chissà davvero cosa si aspettasse; forse solitudine, sicuramente un mondo nuovo. Ma, per scoprirlo, bisogna partire. Volò in Giappone, trovò l’America: accolto come un semidio, non solo al suo arrivo ma in ogni stadio nel quale giocò con la maglia del Jubilo Iwata (curiosamente club posto sotto l’egida della Yamaha, come la Juventus lo era della Fiat), Schillaci da quelle parti è stato un costruttore. La J-League nipponica, il primo vero campionato professionistico nel Paese del Sol Levante, era alla sua seconda stagione, e il vero salto, dal punto di vista dell’immagine, lo fece con il suo ingaggio. Segnò al debutto e parecchie altre volte, altre 64 per la precisione, perché Totò a Shizuoka – dove viveva, a 200 km da Tokyo – si sarebbe fermato sino al 1997, continuando a guadagnare denaro e a essere trattato con i guanti, senza peraltro risparmiarsi anche in campo, nonostante gli acciacchi che, specie nel corso della sua ultima stagione, lo tormentarono. Vinse anche una J-League, il suo unico scudetto in carriera, proprio là, in un calcio del quale era un pioniere. Se il Giappone nel 1996 ottenne l’assegnazione del Mondiale del 2002 (assieme alla Corea del Sud), se il calcio giapponese da tempo ormai è una realtà, anche a livello internazionale, lo deve anche a quel trasferimento, a quei tre anni nei quali il movimento era qualcosa in più che Holly e Benji – la conoscenza dell’originale Captain Tsubasa, all’epoca, era di là da venire –, i ragazzini che sognavano il Brasile e l’Europa, mentre Totò percorreva la strada inversa, trovando la sua America.

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