"Vincere crea problemi"

Bruno Reverberi da 42 anni guida il suo team professionistico .

di STEFANO CHIOSSI -
17 ottobre 2023
"Vincere crea problemi"

"Vincere crea problemi"

Bruno Reverberi, qual è il suo primo ricordo?

"La bici Torpado, marchio Atala, con cui corsi la prima Reggio-Casina: avrò avuto 10 anni. C’erano 5 rapporti dietro rispetto ai 12-13 attuali. E poi la sacralità: nel dopoguerra il ciclismo anche grazie alla sfida Coppi-Bartali era tutto, nemmeno paragonabile al calcio attuale".

A guardare la data di nascita del fondatore dell’attuale Green Project Bardiani, il team ciclistico più longevo tra i professionisti con 42 anni di attività, c’è da strabuzzare gli occhi: classe 1942, Reverberi ci accoglie nella splendida villa tra Cavriago e Bibbiano dopo essersi ‘bevuto’ i classici cento e passa chilometri della mattinata.

Non mi dica che…

"Vado in bici tutti i giorni? Certamente sì. Faccio una vita da ciclista; anzi, migliore rispetto alla loro per certi versi (ride divertito, ndr)".

Cosa faceva Bruno Reverberi da giovane?

"Lavorava. Finite le elementari ho fatto il test di ammissione per entrare alle medie: in attesa di iniziare mi son messo ad aiutare il mio ‘padrone’ (titolare, ndr) in una officina. Pensavo fossero due mesi, poi ha visto che ero bravo, servivano soldi a casa e lì son rimasto. Ho fatto tanti di quei pianti perché volevo andare a scuola…Avevo 11 anni".

Ma la bici era sempre presente.

"Correvo nei dilettanti, ma solo chi vinceva aveva un piccolo stipendio. In ogni caso negli anni ’50 ogni paesino aveva la sua squadra ciclistica, e così dopo aver aperto la mia officina sono diventato direttore sportivo del team di Bibbiano sponsorizzata Termolan. Lì è iniziato tutto".

Primo traguardo: il professionismo.

"Sono entrato nel 1982 con il team Reverberi: lo sponsor era Termolan-Galli ma il nome era il mio. Fu una rivoluzione in un’epoca in cui era il partner commerciale a dettare le regole. Però le squadre duravano cinque anni massimo: quando lo sponsor si ritirava, saltava tutto per aria; noi dopo 40 anni siamo ancora qua…".

Fu un passo difficile?

"Tecnicamente no, avevamo già 11-12 corridori e l’esperienza ‘di gara’ non mi mancava. È stata più complicata la gestione dei contratti, con i primi obblighi sociali da riconoscere ai corridori. Ma erano altri tempi: lo stipendio minimo era 8 milioni di lire, circa 4mila euro; ora sono 30mila. Poi andavamo in giro sì e no con due meccanici e il massaggiatore, altro che i pullman attuali".

Parliamo dei suoi ciclisti: si ricorda i primi?

"Come no, abbiamo portato al professionismo Davide Cassani. L’ho visto di recente: ‘Mi hai insegnato a fare il professionista’ le sue parole; mi ha quasi commosso. Inizialmente li cercavamo anche all’estero come gli australiani, ma ricordo anche argentini e colombiani: qualche scavezzacolo c’era! Gestirli era complicato: quando portavi uno di Bogotà a a Cavriago… Restavano poco diciamo".

Come riconosce il talento? "Semplice, guardo come ‘spedalicchiano’".

Troppo facile.

"In parte. Io li vado a vedere. Sul campo. Quando andavo in ferie con mia moglie ne approfittavo sempre per guardare qualche gara qua e là; lo faccio tutt’ora con i ragazzini. Se uno è bravo lo vedi da come pedala, se corre anche di testa, se ha grinta o più semplicemente dall’esperienza che hai acquisito. A noi è andata bene dai (ha lanciato gente come Petacchi, Conti, Modolo, Pozzovivo, Ciccone, Zana, ndr)".

Che rapporto ha con la vittoria?

"Vincere ti crea solo problemi maggiori".

Qualcuno la prenderebbe per matto.

"Sono realista invece: se diventi troppo grande senza portare a casa successi non duri. Vi faccio un esempio: la mia stagione più difficile, paradossalmente, è stata passare da 35 corse vinte a 18. Lo sponsor non capiva, pensava che le trenta e passa fossero la normalità, invece era qualcosa di stratosferico. Il mio ruolo non è vendere fumo ai partner, ma far quadrare i conti a fine anno".

Ma se un suo ciclista vince a ripetizione…

"Penso già a come sostituirlo l’anno dopo. Una stagione Sascha Modolo trionfò 10 volte: lo sponsor voleva tenerlo, io no. Lo puoi pagare di più, ma è destinato ad andare in squadre più forti e io non rischio di sacrificare tutto il budget. Nello sport troppo spesso si spendono soldi prima di averli. Sa che lo dissi anche a Fiaccadori?".

Ermete?

"Certamente, mi chiamò nel consiglio del Volley Tricolore quando era in società. Dopo una riunione con i conti in rosso mi chiese, ‘Bruno come fai a gestire la tua squadra?’ Risposta: ‘Facendo il contrario di quello che fate voi’. Si arrabbiarono bonariamente, ricordando quanti soldi avevano investito senza ritorno. Ma il problema era proprio quello".

In 42 anni ha visto di tutto. Doping compreso.

"Brutto periodo quello. Gli anni ’90 nel ciclismo andrebbero cancellati, anche se poi avvenivano le stesse cose con Coppi, Bartali e Merckx, solo che non c’erano controlli".

Lei sapeva che i suoi ciclisti si dopavano?

"Tutti lo facevano: quando vedevo Lance Armstrong fare 120 pedalate al minuto all’Alpe d’Huez senza avere nemmeno il fiatone chiamavo Cassani in telecronaca Rai per avvisarlo: ‘È una vita che vedo corridori, non si può andare così’. Ma non ho mai comprato doping e tantomeno invitato i miei corridori a farne uso; certo a ogni test c’era un grande livello di stress, eppure erano proprio i medici delle squadre a scartarti davanti a un ematocrito troppo basso: se non eri a certi livelli non potevi essere competitivo".

Era un problema solo del ciclismo?

"Macché. Guardate le inchieste di Guariniello sulla Juventus per il medico Agricola. Ma banalmente facevo il dirigente a Bibbiano, che credo fosse in Promozione: prima delle partite veniva dato del Micoren ai giocatori, poi diventato illegale. Tutto lo sport era coinvolto".

E ora?

"Tutta un’altra storia. Se parliamo dei corridori, su 100 puliti forse ci sono due mele marce. Peraltro il ciclismo non è mai stato così divertente: con le dirette tv e le tappe ridotte le fughe partono fin da subito, mentre ai miei tempi a volte ci si addormentava in macchina a volte…Certo ci sono 5-6 fenomeni e 3 squadre fortissime, dopodiché il livello cala. E così si rischia di pagare un gatto come una tigre: vedo corridori da due vittorie l’anno intascare un milione".

Ecco perché investe sui giovani.

"Sì, ma con quale sistema? I ragazzi che fanno sport sono sempre meno. E mancano i dirigenti: una volta c’erano 20-30 appassionati, ora sono tutti attempati come me…E poi costa tutto troppo: il giovane va nei dilettanti se lo pagano, altrimenti se vai via due o tre domeniche di fila gratis la compagna ti fa trovare le valigie fuori dalla porta".

Il ciclismo andrà a morire?

"Ma no, fisicamente le persone hanno bisogno di fare movimento. Però è un discorso complesso, che riguarda anche l’Uci (Unione Ciclistica Internazionale, ndr) e le folli licenze per il World Tour per esempio. E coinvolgo anche le amministrazioni: l’ho detto di recente a Bonaccini, bisogna smettere di fare le piste ciclopedonali. Come fai ad allenarti in mezzo ai pedoni? Buttano soldi a caso".

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