L’Italia a fondo e il valore nascosto dei giovani. Dai vivai alla A: è record negativo. Atalanta unica miniera d’oro

Solo il 5,7% dei minuti totali giocati nel massimo campionato è legato a ragazzi cresciuti negli stessi club. La Dea ha saputo sempre vendere i propri atleti dopo la loro maturazione: incassati 120 milioni in dieci anni

di GIULIO MOLA, INVIATO
2 luglio 2024

Iserlohn (Germania), 2 luglio 2024 – Da una parte il presidente federale, sempre più solo. Dall’altra un ct, sempre più accerchiato. Dal chiedere scusa si è passati velocemente a trovare le scuse, perché snocciolare alibi è sempre più semplice che spiegare i motivi di un fallimento sul campo (spogliatoio in ebollizione, confusione tattica, preparazione atletica sbagliata alcune delle cause). E invece no, adesso sembra che tutto dipenda dall’invasione degli stranieri (il 67% dei calciatori della serie A non sono italiani) e dai limitati investimenti nelle giovanili fino alla scarsa cura dei talenti. Le colpe? Ovviamente delle società.

Il ct Luciano Spalletti
Il ct Luciano Spalletti

La questione è ciclica e viene puntualmente rispolverata (per poi essere accantonata) dopo ogni sconfitta della Nazionale. Il ritornello è sempre lo stesso: “I club della Serie A tendono a trascurare i ragazzi formati nei propri vivai per imbottire le proprie rose di stranieri”.

Diciamo che le cose in parte sono così. Pochi mesi fa il Cies (l’osservatorio sul calcio con sede in Svizzera), ha pubblicato uno studio che fotografa la situazione dei settori giovanili a livello internazionale. Prendendo in esame la percentuale di minuti concessi ai giocatori che si sono formati nei vivai dei club, il report stila una classifica fra le squadre di oltre sessanta campionati di tutto il mondo. Il dato che ne viene fuori è allarmante: la Serie A, infatti, è l’ultimo fra i cinque più importanti tornei continentali (e ventottesimo in tutta Europa) per utilizzo dei giocatori usciti dai propri settori giovanili: solo per il 5.7% dei minuti totali disponibili. Peggio hanno fatto la First Division cipriota (5.6%), la Super League greca (4.8%) e la Süper Lig turca (4.3%). Entrando nei dettagli: solo Atalanta (al ventesimo posto fra le società dei cinque maggiori tornei europei per minuti concessi a giocatori formatisi nel proprio settore giovanile), Juventus e Roma hanno impiegato i calciatori cresciuti nel loro vivaio per più del 10% dei minuti totali.

Poi c’è un altro lato della medaglia. Mentre ogni anno 350.000 ragazzini si iscrivono alle scuole calcio pesando non poco sui bilanci familiari (inseguire il sogno costa dai 300 ai 1.200 euro, ma solo uno su 5mila esordirà in A), i club spendono circa 120 milioni a stagione (tra acquisto di cartellini, stipendi e costi di gestione) per i loro vivai. Il problema è che da noi i giovani non sono visti come investimento per il futuro, ma solo come merce di scambio o per fare cassa. Questo perché in un mercato sempre più complicato e gonfiato per le nostre squadre, i settori giovanili sono diventati una miniera d’oro per i bilanci. Un esempio? L’EuroAtalanta, la società che nell’ultima stagione aveva in “rosa” più prodotti del vivaio (Scalvini e Ruggeri sono solo due esempi) vende benissimo i propri ragazzi tant’è che ha incassato circa 120 milioni in poco più di due lustri.

Anche la Juventus aveva 10 giovanotti della "cantera in rosa” (fra tutti Miretti e Fagioli) grazie agli investimenti annui da 13 milioni. E ora pure il Milan ha raddoppiato le risorse destinate al settore giovanile, arrivando a 12 milioni (e puntando sulla Next Gen per valorizzare i suoi talenti), sempre meno dei 20 messi a bilancio dall’Inter. Il problema è che nell’undici di Simone Inzaghi l’unico titolare proveniente dal vivaio è Dimarco, non più un ragazzino. Casadei, Fabbian e i fratelli Esposito hanno preso altre strade. Come tanti altri campioncini “sedotti e abbandonati” dai colori dei loro sogni.

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