La storia di Pape Dara Mbengue. "Gli insulti uccisero la mia passione. Ma continuo a non credere che l’Italia sia una nazione razzista»

L’ex calciatore senegalese del Capriate decise di smettere dopo le offese durante un torneo dilettantistico

di GIULIO MOLA -
23 gennaio 2024
"Gli insulti uccisero la mia passione. Ma continuo a non credere che l’Italia sia una nazione razzista"

"Gli insulti uccisero la mia passione. Ma continuo a non credere che l’Italia sia una nazione razzista"

Non posso credere che sia accaduto ancora, così come continuo a non pensare che l’Italia sia un paese razzista, questa è una nazione che vale molto di più. Ma quel che è successo a Udine nei confronti di Maignan è vergognoso". Non usa giri di parole Pape Dara Mbengue, 29 anni, originario del Senegal ma trapiantato in Italia (nella provincia di Bergamo) da quasi quattro lustri. Lui sa bene cosa possa suscitare un’offesa. Discriminazione e disprezzo li ha provati sulla sua pelle, anzi, a causa del colore della sua pelle. E proprio per aver ricevuto insulti razzisti ha lasciato il calcio. "Ho sempre sofferto il razzismo, che ho subìto sin dall’arrivo in Europa. E ho sempre dovuto subire le offese, pagando la mia differenza di carnagione - ricorda Dara, tifosissimo del Milan -. Ma il fatto più doloroso è avvenuto in un campo di calcio...".

Passo indietro, autunno del 2019: "Giocavo nel Capriate, per me una seconda famiglia. Il calcio era un hobby, non un lavoro. Una domenica andammo in casa del Boltiere, prima in classifica. Ero in stato di grazia, da trequartista avevo già segnato 5 gol e fornito 4 assist dall’inizio del torneo. Dopo quaranta minuti uno degli avversari simulò un rigore nella nostra area ed io gli dissi di andare a “tuffarsi in piscina“. Il loro numero 10 mi rispose con una frase orribile: “Stai zitto negro di m... e torna al tuo paese“. Da quell’istante persi la ragione e in campo scoppiò il finimondo. Feci un fallo su un avversario, poi intervennero i dirigenti per calmarmi e trascinarmi negli spogliatoi anche perché dopo aver riconosciuto il giocatore che per primo mi aveva offeso anche io pronunciai frasi pesanti... Solo allora l’arbitro si accorse di tutto, però cacciò solo me. Assurdo che fossi solo io a pagare e per questo non volevo lasciare il campo... Ebbi una brutta reazione anche dopo".

La carriera di Dara di fatto finì lì. "Non mi meritavo quegli insulti dopo tanti anni vissuti in questo paese. Io volevo solo giocare a calcio, battermi lealmente, difendendo il mio senso d’appartenenza ad una comunità. C’era solo un modo per non sentire più quegli insulti da parte mia: in cuor mio avevo deciso di abbandonare...". La sentenza del giudice sportivo fu il colpo di grazia: "Al giovedì ci fu il verdetto del giudice sportivo: 13 giornate di squalifica. Quando la società mi informò che non avrebbe fatto ricorso realizzai che razzista non erano solo il 10 del Boltiere e il giudice sportivo. Comunicai subito al presidente e al direttore sportivo di non contare più sulle mie prestazioni perché nemmeno loro mi avevano sostenuto e difeso a dovere. Forse non sapevamo cosa volesse dire essere trattati da “diversi”. Abbandonai perché fu uccisa la mia passione".

Dara nel tempo ha metabolizzato. O forse no. Lui, amante della filosofia, ha voluto scrivere il libro “L’eterno straniero“, ovvero la storia d’un bambino nato nella periferia di Dakar, catapultato dall’altra parte del mondo con una valigia di sogni e la speranza di diventare come Kakà. Una testimonianza forte dove i sogni di un ragazzo s’infrangono contro un mondo senza valori. "E’ giusto continuare a parlarne - continua Mbengue -. Io col calcio ho chiuso ma non vorrei che in futuro possano accadere le stesse becere cose ai miei cugini di 6 e 12 anni. E comunque quel che è successo a Udine ha dell’assurdo. Credo che i friulani, come squadra, abbiano più giocatori neri del Milan... E allora perché tutto questo?"

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