La terza vita di Velasco: “Volevo essere Sandokan. Non andrò mai in pensione”

Il ct dopo l’oro olimpico con le ragazze del volley: da bimbo leggevo sempre Salgari. “A Los Angeles avrò 76 anni, ma se Trump è al governo, io posso allenare”

di DORIANO RABOTTI
30 novembre 2024
Julio Velasco ha vinto l’oro alle Olimpiadi con la squadra femminile a 72 anni: ha prolungato fino al 2028 a Los Angeles

Julio Velasco ha vinto l’oro alle Olimpiadi con la squadra femminile a 72 anni: ha prolungato fino al 2028 a Los Angeles

Julio Velasco, ha vinto le Olimpiadi a 72 anni e ha scelto di arrivare a Los Angeles 2028, ne avrà 76. Non le basta ancora?

“Se il fisico me lo consentirà, io non andrò mai in pensione. Certo non potrò fare l’allenatore in eterno, ma se Trump è presidente degli Stati Uniti perché non dovrei pensare di tornare a fare il direttore tecnico di un settore giovanile? In fondo, far crescere i giovani era la mia idea quando quando da ragazzo volevo diventare insegnante”.

Lei ora è in Argentina: lì come viene visto, come il figliol prodigo di successo?

“Sono quello che sono in Italia, in più sono il primo argentino a vincere un oro olimpico nella pallavolo. Ma più che altro quando vengo ritrovo gli amici della vita, quelli dell’università e della scuola e passo il tempo con loro, a Buenos Aires. O a La Plata, ma non ho più familiari qui”.

A La Plata è cresciuto. Che cosa sognava da bambino?

“Avrei voluto essere Sandokan, leggevo i libri di Salgari. Poi avrei voluto fare il calciatore, oppure il cowboy. Da adolescente volevo diventare il professore delle superiori, non dell’università, perché non mi interessava la ricerca pura, mi piaceva l’insegnamento. Anche se mia madre Edith non era d’accordo”.

Perché?

“Perché lei aveva insegnato inglese tutta la vita e voleva che io facessi un mestiere che permettesse di guadagnare di più”.

Che cosa le hanno detto i suoi tre nipoti dopo l’oro?

“Dai quarti di finale erano anche loro a Parigi. Si avvicinavano nel riscaldamento, erano più silenziosi e affettuosi del solito, colpiti dal fatto che i tifosi urlassero il nome del nonno, soprattutto le due nipotine più piccole. Vedevano i palazzetti pieni, pensavano di essere in un film”.

A lei che effetto fa quella vittoria a tre mesi di distanza?

“È una sensazione contraddittoria. La consapevolezza arriva dopo un po’, quando capisci di aver fatto una cosa storica con la squadra femminile, e soprattutto per il modo in cui abbiamo vinto, con una superiorità che nemmeno noi ci aspettavamo. Ma poi come tutti gli allenatori, penso già al dopo. Ok, abbiamo fatto qualcosa di grande, ma è il passato. Sto riflettendo su come gestire questa ripartenza”.

In tempi così social, il successo è più difficile da affrontare della sconfitta?

“Se ti lasci andare perdi il contatto con la realtà e non può finire bene. Ogni vittoria è già il passato, che sia un mese o un anno non fa differenza”.

È vero che dopo una vittoria così ci si sente vuoti?

“È vero, ci capitò anche nel 1990 con il mondiale dei maschi. Io paragono un po’ questa sensazione al parto delle donne: per nove mesi portano in grembo una creatura e quando nasce è tutto bellissimo, ma subito dopo c’è una specie di malinconia. Le vittorie rendono felici, ma pensi anche: adesso è finita la storia, è come se ti mancasse qualcosa. A me ora manca anche solo potersi vedere per una cena, è un gruppo che ha condiviso tanto”.

Lei non soffre della sindrome di Alessandro Magno, che vinte tutte le guerre, davanti al mare si sentiva privo di un senso perché non c’era più terra da conquistare.

“No, io sono sempre stato così, penso all’obiettivo successivo. Quando allenavo l’under 14 il mio mondiale era l’under 14. Ero andato a Busto Arsizio convinto che la squadra si sarebbe salvata, e si è salvata. Però so benissimo che tornare a vincere è molto più difficile, l’avevo detto anche al ct della maschile De Giorgi dopo il successo nell’ultimo mondiale: ricordati che gli anni più difficili li passammo dopo il trionfo del ’90. E infatti quest’anno non ha vinto. Non è questione di impegno, succede”.

Nessun rimpianto per qualcosa che non ha fatto?

“Uno solo, avrei voluto allenare in Africa, dopo aver scoperto una cultura storica con l’esperienza in Iran. Ma ormai è tardi”.

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“Mi sono rassegnato. Capita anche a chi scrive un romanzo o una canzone, ognuno lo interpreta a modo suo. Internet e i social hanno aumentato a dismisura questo fenomeno, c’è perfino un profilo Instagram che non è mio, è falso. Non c’è niente da fare, non puoi metterti a rincorrere tutto quello che dicono”.

È cambiato anche il ruolo dell’esempio degli sportivi.

“Credo che viviamo una società di esagerazioni, ormai l’informazione è tanta, per una questione tecnologica, e bisogna sempre fare rumore, creare personaggi quasi magici. Come se noi sportivi fossimo degli Avengers. Lo sport è uno dei due mestieri che creano più emozioni in assoluto, l’altro è la musica. Non possiamo cambiare questa cosa, ma possiamo evitare di crederci troppo. Un musicista o uno sportivo invece diventano icone mondiali. E se sei Maradona o Michael Jackson e non reggi questa pressione, non hai più una vita. Non bisogna caderci”.

La sua squadra è un manifesto dell’integrazione. In Italia c’è un problema di razzismo?

“Il discorso è molto complesso e una ricetta io non ce l’ho. Non c’è un paese dove non ci sia razzismo, e un altro problema universale è la xenofobia. L’umanità ha fatto progressi ma serve una presa di coscienza, è un percorso che ancora dobbiamo completare. Siamo tutti meno razzisti di una volta, ma dobbiamo sempre stare attenti, continuare a costruire una cultura per non escludere l’altro e per difendere la democrazia. E la democrazia è anche accettare che ci sia chi la pensa in modo diverso o opposto a noi senza volerli eliminare culturalmente”.

La sua squadra ha aiutato molto ad aprire gli occhi.

“Lo sport lo fa. Le piccole comunità sportive convivono molto bene, anche i bambini stanno insieme in modo naturale, senza notare il colore della pelle”.

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